Il risultato dei referendum in Veneto e in Lombardia è netto e consegna chiari messaggi a chi voglia intendere. Solo per comune memoria ricordiamo che in Veneto ha votato il 57,2% degli elettori con il 98,1% di sì. In questo caso, per la validità della consultazione, era necessario superare il quorum del cinquanta più uno degli aventi titolo. In Lombardia, senza quorum, ha votato il 38,25% degli elettori. 95,29 la percentuale a favore di una maggiore autonomia. In tempi di bassa affluenza alle urne si tratta di risultati davvero ragguardevoli.
Nessuno può ragionevolmente sostenere che questi siano tutti voti leghisti, né che lombardi e veneti abbiano imboccato derive indipendentiste. Zaia e Maroni, senza dubbio, giocano la loro partita per la leadership del centro destra ma non è questo il punto. Lombardia e Veneto, in realtà, manifestano un autentico disagio verso lo Stato centrale e si incamminano sulla strada del regionalismo “rafforzato”, previsto dall’articolo 116 della Costituzione.
In ogni caso, al netto della propaganda elettorale, pur inevitabile in queste circostanze, il voto di milioni di cittadini va preso sul serio e richiede risposte adeguate.
Il problema, ormai, non consiste nell’interpretare le prossime mosse dei Governatori leghisti ma nel capire cosa vorrà fare la restante parte del mondo politico. Le prime reazioni sembrano sconcertanti, lontane mille miglia dalle necessità reali.
Qualcuno chiede che analoghi referendum si svolgano in tutte le regioni. Davvero paradossale. Cosa ci si aspetta? Maggiore autonomia per tutte le Regioni? Peccato che il Molise non sia la Lombardia così come la Campania non è il Veneto. Lo Stato verrebbe ridotto in mille pezzi e nessuno sarebbero in grado di realizzare né uno Stato federale né altra forma di organizzazione statuale. Solo caos.
Altri inseguono il successo leghista cercando, al solito, di correre “in soccorso dei vincitori”. Comprensibile strategia comunicativa, tutta giocata in difesa, ma nulla più.
Altri ancora tacciono e si preparano a sostenere una battaglia di contenimento. Zaia e Maroni chiederanno maggiore autonomia su tutte le materie a legislazione concorrente. Si risponderà che non tutto si può concedere, che il residuo fiscale va conteggiato con attenzione e così via. È questa la reazione giusta? Si salva così lo Stato unitario?
Non dimentichiamo che la consultazione referendaria del 22 ottobre viene dopo quella del 4 dicembre che ha spazzato via, a torto o a ragione, l’ultimo tentativo di definire un nuovo equilibrio tra Stato e Regioni, a favore del primo e limitando le competenze delle seconde, dopo anni di autentica confusione.
In realtà il voto popolare di domenica scorsa e la stessa iniziativa istituzionale della Regione Emilia-Romagna hanno innescato un processo irreversibile che non potrà trovare soluzione con “pannicelli caldi”. Si impone, al contrario, un vero processo di riorganizzazione statuale. Improponibile un autentico federalismo in presenza di 20 piccole e piccolissime regioni. Forse è giunto il momento di tornare a parlare di macroregioni e della loro possibile organizzazione federale. Certo, non si tratta di un argomento che scalda gli animi e mobilita il “popolo”, ma non sembra esserci altra ipotesi istituzionale ragionevole.
Chi dovrebbe farsi carico di una proposta di questa natura? La risposta è abbastanza semplice: una politica “alta”, capace di mettere da parte il consenso immediato e guardare al medio-lungo periodo. Ma ci sarebbero anche altri che hanno oggettivo interesse a rilanciare questa discussione. In primo luogo le regioni del Centro e del Sud Italia. Qual è il loro destino a fronte del regionalismo rafforzato di Veneto, Emilia, Lombardia? Le distanze, in termini di sviluppo economico e qualità di vita dei cittadini, si amplierebbero ancor più, determinando una vera e propria cesura. Qualcuno fa finta di non accorgersene, ma già oggi è difficile pensare che Calabria e Lombardia siano parti di un medesimo Stato. Ma nessuno affronta l’argomento. In questo, come in molti altri casi, la paura è una pessima consigliera. Al contrario, proprio ora il coraggio e l’innovazione risultano indispensabili.
D’altra parte anche lo scenario europeo dovrebbe invitare a meditare. Molti Stati “subiscono” spinte autonomiste/indipendentiste. Ma nessuna di queste entità territoriali sembra mettere in discussione l’adesione all’Europa, al contrario di quanto fanno le forze sovraniste euroscettiche. In fondo, anche questa non è una novità: la dimensione “regionale” rappresenta uno dei tratti caratteristici delle più autentiche politiche europee.
C’è bisogno di riflettere. Veneto e Lombardia rivendicando maggiore autonomia invitano il Paese a ripensare la propria organizzazione statuale. L’importante è, ancora una volta, non cedere alle “banalizzazioni” ma accettare una sfida che ormai è sul tavolo da troppo tempo.