Affrontare una tematica delicata come la sindrome di Asperger sul piccolo schermo, ma soprattutto farlo su Raiuno, in prima serata e attraverso una fiction, non è affatto semplice. Eppure sembra proprio che chi ha deciso di cimentarsi in questa sfida, abbia vinto la scommessa. Stiamo parlando della serie televisiva “Tutto può succedere”, un adattamento italiano della serie statunitense del 2010 Parenthood – creata da Jason Katims e trasmessa sulla NBC per sei stagioni – andata in onda proprio sul primo canale Rai ogni domenica dal 27 dicembre 2015 al 13 marzo 2016.
“Tutto può succedere” narra le avventure di una grande famiglia, quella dei Ferraro, composta da diversi nuclei familiari le cui giornate sono animate da amori, litigi, problemi, vittorie. Famiglie allargate, tradimenti, crisi adolescenziali movimentano la vita della caotica famiglia romana. A questo però si aggiunge il problema specifico di una delle famiglie protagoniste, quella composta da papà Alessandro (Pietro Sermonti) e mamma Cristina (Camilla Filippi), genitori dell’adolescente Federica e del piccolo Max (Roberto Nocchi), un bimbo di 11 anni affetto dalla sindrome di Asperger. Un disturbo di cui i Ferraro si accorgono all’inizio della fiction e che, seppur tra mille dubbi, paure e difficoltà, affrontano nel corso della stagione televisiva con l’ausilio di un’assistente di sostegno, Gabriella, interpretata dall’attrice Lorena Cacciatore.
A pochi giorni dal termine della prima stagione, e mentre i moltissimi spettatori attendono la seconda, già annunciata e prevista per il 2017, abbiamo intervistato proprio Lorena Cacciatore per capire meglio le difficoltà incontrate nell’interpretazione di un ruolo così delicato, ma anche per comprendere l’importanza di affrontare un tema così complesso davanti a un grande pubblico.
Quanto è importante presentare al grande pubblico di Raiuno una sindrome, come l’Asperger, di cui si parla ancora molto poco, ma soprattutto farlo con una fiction molto “leggera”?
“Tutto può succedere” è la versione italiana di “Parenthood”, una serie americana che ha raggiunto la sesta stagione e che ha riscosso moltissimo successo. Rai ha deciso di riproporla adattandola chiaramente all’Italia e di parlare, quindi, di questa malattia, che è una forma di autismo, che è conosciuta da pochissimo ma che affligge tantissimi bambini. E’ vero, infatti, che ancora se ne sa molto poco ed è molto importante quindi, parlarne al grande pubblico.
Quando le hanno proposto questa parte, ossia l’assistente di sostegno di Max, cosa ha pensato? Ha avuto qualche timore?
Beh sì. E’ una responsabilità enorme. Ti confronti con un tipo di professione dove non ti puoi improvvisare. Io prima di interpretare Gabriella, per quanto piccolo fosse il mio personaggio, ho letto tutto ciò che c’era da sapere, sull’Asperger, sull’autismo. Ma poi un conto è leggerle e un conto è metterle in campo. Per questo c’era un’insegnante di sostegno vera che mi indirizzava costantemente, perché tu ti puoi fare tutta la cultura che vuoi ma poi questa cultura necessita di una sorta di tutor che ti guidi nella giusta direzione. Mi sono quindi preparata molto, anche perché non si può banalizzare una malattia del genere, e non si può banalizzare una figura così importante, come può essere quella di un insegnante di sostegno per questi bambini.
Come si è preparata ad affrontare un ruolo tanto delicato?
Per calarmi nel mio personaggio, ossia Gabriella, io sono stata affiancata sul set da un’assistente sociale e mi relazionavo continuamente con lei. Proprio per cercare di capire quale potesse essere l’approccio più corretto con un ragazzino affetto da questa sindrome, ovviamente solo nella finzione dal momento che l’attore, Roberto Nocchi, sta benissimo nella realtà. A partire dal linguaggio, ma anche dalla gestualità utilizzata nei confronti di questi ragazzini, cui una persona deve stare molto attenta. Parlando con questa figura professionale ho scoperto ad esempio che anche gli stessi genitori per relazionarsi con i loro figli hanno bisogno di fare un corso vero e proprio. Poiché dalla carezza in più o dalla parola detta male, questi bambini, che hanno una sensibilità particolare, possono reagire e rispondere in maniera anche particolarmente violenta. Per cui anche io ho avuto delle difficoltà a rapportarmi a questo personaggio. A volte ad esempio sbagliavo perché abbinavo al testo recitato delle azioni che per me erano automatiche, come ad esempio abbracciare o anche solo toccare il bambino. E lì interveniva immediatamente l’assistente che chiamava lo stop e mi diceva “no Lorenza, perché prima di toccarlo in realtà devi conquistare la sua fiducia e in questa fase della storia Max non è ancora totalmente predisposto nei tuoi confronti, arriverà un momento in cui potrai tenergli la mano”. E infatti poi arriva un momento in cui Max ha una crisi di panico e si rivolge alla madre e allo zio con grande violenza, e l’unico approdo è rappresentato da Gabriella alla quale il bambino si aggrappa con grandissima forza, e lei cerca di stabilire con lui un contatto visivo e di riportare la calma. Quindi c’è veramente una cura, una ricerca, uno studio non indifferente proprio per rivolgersi a questi bambini. Ed è stata la scoperta di un mondo a me completamente sconosciuto, ma sconosciuto anche a tantissime persone e a volte agli stessi genitori. Spesso non tutti sanno, infatti, che dietro un’apparente “stranezza” si nasconde qualcosa di più complesso, particolare, da indagare approfonditamente e sul quale agire di conseguenza.
Avete avuto un riscontro da parte dei genitori che vivono questa problematica? Hanno gradito che si affrontasse il tema dell’Asperger in una fiction?
Qualcuno mi ha contattato, ma sono stati contatti sporadici. Io credo che forse abbiamo avuto più contatti a riguardo Pietro Sermonti e Camilla Filippi che interpretavano i genitori di Max, per cui anche loro, come me, hanno avuto la necessità di dialogare con veri genitori per calarsi meglio nella parte.
Nel corso della fiction, quindi, si assisterà a dei miglioramenti di Max?
Sì, dei piccoli miglioramenti. Perché in realtà quello che mi hanno spiegato è che da questa sindrome non si guarisce. Il soggetto affetto dall’Asperger non ha dei miglioramenti effettivi, quello che deve cambiare è l’approccio degli altri nei loro confronti. L’apertura avviene solo davanti a una serie di azioni e gesti calibrati e misurati in relazione a quello che è il loro problema specifico. Quello che mi spiegava l’insegnante di sostegno è che i ragazzini affetti dalla sindrome di Asperger sono molto “schematici”, molti da grande diventano matematici o hanno ottini risultati nel mondo della scienza, hanno bisogno quindi di una rete di protezione che cammini dritta, che abbia una linearità. Riescono quindi a vivere benissimo ma solo con l’utilizzo di alcune accortezze da parte di chi convive con loro.
Crede che il fatto di affrontare questa tematica in una fiction Rai possa, oltre ad aiutare le famiglie che vivono direttamente l’Asperger a sentirsi meno sole, anche a sensibilizzare le altre famiglie ad avvicinarsi a questa sindrome con minore paura o sospetto?
Io mi auguro che questa apertura di tanti avvenga. Chiaramente uno se lo aspetta ma non è così scontato, lo sappiamo benissimo. Siamo continuamente pieni di speranza nei confronti di questa umanità, però il più delle volte rimaniamo delusi. Forse non c’è attenzione, solo perché non c’è il tempo di averla. Non so dirlo, è un discorso complesso. Quindi non so se attraverso la fiction, ossia parlandone, si possa apportare qualche miglioramento, io me lo auguro sinceramente.
Ci sono tanti fattori che concorrono al raggiungimento della felicità pubblica. Qual è, secondo lei, il più importante?
Personalmente io mi auguro che l’attenzione verso l’altro sia un’abitudine, non soltanto una cosa bella da dire durante un’intervista. Il fatto di avere attenzione verso l’altro, essere predisposti all’ascolto forse può contribuire a questa felicità pubblica che ci auguriamo tanto.