“Però, che cosa vuol dire però?”.
Questa settimana alla domanda che si poneva Morgan in una splendida canzone mi viene da rispondere che “però” rappresenta il peggio del nostro Paese, la giustificazione all’ingiustificabile, il trovare un senso a qualcosa che davvero non ne ha.
Parliamo dei fatti di Macerata che nei giorni scorsi hanno sconvolto gli abitanti di una tranquilla città delle Marche e con essi l’intera Italia. Una ragazza sparisce da una comunità e viene trovata smembrata all’interno di due valigie. I sospetti cadono su uno spacciatore nigeriano che viene arrestato. Qualche giorno dopo un ragazzo di 28 anni, incensurato ed ex candidato alle elezioni comunali di Corridonia, con un tatuaggio sulla tempia che rappresenta il simbolo di un movimento neofascista eversivo di chiaro richiamo nazista, si sveglia con l’idea di vendicare Pamela, quella ragazza che lui neanche conosceva. L’improvvisato “giustiziere della notte” prende la pistola e semina il terrore nella città marchigiana, sparando trenta colpi in totale all’indirizzo di qualsiasi persona di colore incontri sulla sua strada. Il bilancio è di sei feriti, tutti migranti tra i 20 e i 32 anni, tra cui una giovane donna, con l’unica colpa di avere la pelle nera.
Sembra una delle tante scene che accadono in America e che ascoltiamo con sgomento alla televisione, sollevati dall’idea che in Italia simili episodi non possano verificarsi. E invece è accaduto davvero, proprio nel nostro Paese, come ci ha ricordato lo stesso autore della sfiorata strage avvolgendosi nel tricolore al momento dell’arresto.
Traini è un razzista, ma soprattutto è un folle, uno squilibrato, una persona che era già in cura e che era stata definita “border line” dai medici. Peccato che quella “linea” l’abbia superata, alla fine.
Ma ora torniamo a quel “però”, quattro semplici lettere che in questi giorni ho letto e ascoltato non so più neanche io quante volte, ma che ogni volta mi hanno generato una rabbia, una frustrazione, o meglio ancora una delusione indescrivibile.
“Traini è un folle, però un nigeriano ha fatto a pezzi una povera ragazza”, “è uno squilibrato, però questi stranieri potevano stare a casa loro”, “quello che ha fatto è assurdo, però davvero siamo tutti esasperati”, “io non avrei mai sparato, però capisco la sua rabbia”.
Quel “però” rende tutti colpevoli perché – come dicevo in apertura – tende a trovare una giustificazione a qualcosa che è atroce, folle, inumano, privo di senso. Tende ad assolvere un criminale squilibrato solo perché dalla parte delle vittime c’erano persone di cui non ci interessa nulla, che sono di troppo, che non vogliamo accogliere, che sono un problema, di cui non ci interessa neanche conoscere le storie.
Non è un caso se anche i mezzi di informazione, per giorni, non hanno dedicato neanche un rigo ai sei feriti. Come se non fossero persone, come se la tentata strage fosse stata commessa ai danni di cani randagi, anzi addirittura con minore indignazione perché gli animali non hanno colpe, gli immigrati sì. Arrivano nel nostro Paese, ci rubano il lavoro, violentano le nostre donne, saccheggiano le nostre abitazioni e, come se non bastasse, ora mandano anche in galera un ragazzo “che non aveva mai fatto del male a nessuno prima” e che “salutava sempre quando entrava in palestra”.
A rendere tutto più assurdo è l’inevitabile strumentalizzazione politica della vicenda. A poche settimane dal voto, la storia della povera Pamela e la rabbia del “giustiziere” creano terreno fertile per quelli che il direttore Mentana chiama “avvoltoi elettorali” che “promettono di ripulire l’Italia senza essere nemmeno in grado di ripulire le proprie liste”. Perché la corsa al consenso è così, è spietata. Ed ecco che il volto di una sfortunata ragazza diventa il più becero strumento di propaganda politica e il gesto di un folle, qualcosa da giustificare.
Perché del resto nessuno di noi è razzista. Però…
Il direttore
Vignetta di copertina: Freccia.