Nel nostro Paese crescono le imprese che offrono al loro interno asili aziendali, indispensabili per le madri lavoratrici al fine di non dover scegliere necessariamente – come purtroppo spesso ancora accade – tra carriera o cura dei figli. Purtroppo diciamo subito che rispetto agli altri Paesi europei – soprattutto quelli del Nord – siamo molto indietro, seppur qualcosa di positivo è stato fatto. Il punto, però, è che troviamo asili nido aziendali che ad esempio pagano parte delle rette o servizi di ausilio solo nell’ambito delle grandi imprese o delle multinazionali. Per il resto, in riferimento alle medie imprese, c’è veramente molto poco di positivo da segnalare, per cui si ripropone lo stesso dilemma decennale: figli o carriera? E per chi non può permettersi la retta dell’asilo nido o una babysitter o non può contare sull’aiuto dei parenti spesso si opta per restare a casa e rinunciare al lavoro.
A questi elementi va aggiunto un fatto piuttosto grave: l’Italia continua a mostrare una disparità evidente di retribuzione tra uomini e donne, con queste ultime penalizzate.
In senso più ampio si tratta di un complesso di situazioni che pesa sui bilanci non solo familiari ma anche previdenziali e nei giorni scorsi il presidente dell’Inps Tito Boeri è stato molto chiaro: «Il reddito potenziale delle donne lavoratrici subisce un calo molto accentuato pari a meno 35% nei primi due anni dopo la nascita del figlio, soprattutto fra le donne con un contratto a tempo determinato, perché provoca lunghi periodi di non occupazione. Le madri sono anche “vittime” del precariato. Non sorprende perciò constatare come la crisi abbia fortemente ridotto le nascite (meno 20% nel Nord del Paese). I costi della genitorialità – ha detto Boeri – potrebbero essere fortemente contenuti non solo rafforzando i servizi per l’infanzia, ma anche e soprattutto promuovendo una maggiore condivisione della genitorialità». Un chiaro riferimento al famoso congedo parentale obbligatorio per gli uomini, non fosse però che in realtà come Boeri ammette, non è stato praticamente mai applicato. Il che porta il presidente dell’Inps a parlare di «risultato deludente se l’obiettivo della legge era stimolare una maggiore condivisione degli oneri per la cura dei figli e cambiare le percezioni di datori di lavoro restii ad assumere le donne in età fertile».
Un ragionamento, quello di Tito Boeri, che lascia intendere come lo Stato, da solo, non riesca a trovare una misura efficace per garantire alle donne adeguate misure lavorative. Le multinazionali e le grandi imprese hanno invece studiato ad hoc strumenti di welfare aziendali per le madri lavoratrici. Se guardiamo al Gruppo Pirelli, ad esempio, scopriamo che ha avuto la lungimiranza di muoversi con un certo anticipo, stringendo una partnership con un nido all’avanguardia i cui costi sono pagati per metà dall’azienda. Realtà come Mediaset hanno al proprio interno i loro asili ed anche diverse banche tra cui Bnl, Intesa San Paolo, Unipol e Mediolanum. Non tutte, certo. Stesso discorso per le imprese farmaceutiche nelle quali molte madri lavoratrici sono impegnate: le aziende si sono organizzate molto bene in tal senso e altre stanno provvedendo.
Altro punto dolente è quello che fa riferimento alle neomamme che, dopo i primi mesi successivi al parto, tornano a lavorare. Succede sempre più spesso che nelle aziende medio o piccole, esse non rientrino affatto perché o non viene rinnovato il contratto oppure il sistema di welfare non funziona, per cui le madri lavoratrici semplicemente smettono di esserlo.
In sostanza la situazione italiana è questa: abbastanza bene si stanno muovendo le multinazionali e le grandi imprese ma rappresentano un microcosmo se pensiamo che, fondamentalmente, l’universo lavorativo è perlopiù fatto da realtà di medio o piccolo calibro. Questo non significa che dei progressi non siano stati fatti ma a questo punto non lavorare per una multinazionale è penalizzante, tanto per il bilancio familiare quanto per quello previdenziale.