Parlare di vita, diritti del malato e, principalmente, libertà mediante l’uso degli spazi: è quanto fa Alejandro Amenàbar, versatile regista cileno – qui in veste anche di co-sceneggiatore e autore della colonna sonora – con la sua opera massima, “Mare Dentro”.
Un film dove nulla è lasciato al caso, e ciò ne sancisce grandezza e profondità.
L’importanza degli spazi si evince dall’incipit, uno schermo cinematografico che si dilata, come un respiro. E poi dall’ambientazione: la Galizia, terra aspra e verde, quasi arcaica, chiusa, ma allo stesso tempo aperta sulle rive dell’Atlantico. La casa in cui si svolge la vicenda è immersa nella campagna verde e piovosa. Davanti a essa si snodano campi, colline e infine il mare immenso.
Ma il protagonista, Ramòn – un Javier Bardem in stato di grazia, capace solo recitando con gli occhi di far raggiungere altissime vette emozionali allo spettatore – è bloccato dentro la casa, tetraplegico e immobile a letto dopo un incidente in mare. Gli spazi interni sono opprimenti, via via che si sale e ci si avvicina alla stanza in cui Ramòn vive – o vegeta? – si fanno più stretti e angusti.
Bisogna andare oltre la mera vicenda, seppur importante e che fa da filo conduttore, cioè un malato che lotta per veder riconosciuto il diritto di ricorrere all’eutanasia.
“Mare Dentro” è anche la metafora, attraverso una serie di simboli, della perdita della libertà, nel senso più alto del termine.
La fotografia di Aguirresarobe è fredda negli ambienti e sui volti delle persone, a eccezione dei momenti onirici nei quali vediamo Ramòn volare o camminare, contornato dalla luce calda e solare, luminosa e avvolgente come la grandezza dell’oceano.
Altro simbolo è la nutrita presenza femminile che circonda e coccola Ramòn: un’attivista; un’amica conosciuta per caso; la cognata che l’accudisce; l’avvocatessa, anche lei afflitta da un male degenerativo, per cui la sola persona in grado di capirlo fino in fondo. Non poteva essere altrimenti, poiché anche la vita è femmina, lo è anche la natura. Lo è anche la morte.
A contrasto le figure maschili: il fratello di Ramòn e suo padre che non capiscono, così come il prete, la scelta dell’eutanasia, e il nipote adolescente e indolente.
La finestra della camera di Ramòn è grandissima, rivela un panorama fatto di campi e colline. Quando è aperta riesce a sentire l’odore del mare. Il solo mezzo che potrebbe squarciare l’opprimente spazio che si chiude su di lui è una via di fuga agognata e irraggiungibile.
Il film è girato per larga parte con occhio discreto, quasi uno sguardo equidistante e distaccato. Per poi, con lente carrellate, regalare primi piani sui volti e sui piccoli gesti apparentemente insignificanti, come una carezza. Il montaggio asseconda questa scelta, scorrendo fluido e non invadendo la scena, lasciando alla macchina da presa il compito principale della narrazione.
Ramòn ha un handicap gravissimo, ma non gli impedisce di disegnare, scrivere poesie o progettare accorgimenti meccanici che migliorino la sua condizione.
Una mente versatile – quasi un novello Leonardo costretto all’immobilità – e sagace che si chiede: la vita ha senso senza la libertà necessaria che ce la fa godere a pieno?
Il rifiuto per la carrozzella e il contrasto con l’autorità cattolica – “vivere è un diritto, non un obbligo” – porta lo spettatore a riflettere sull’attualità, politica e sociale, e non solo su un problema che purtroppo coinvolge molte persone, ma che spesso sentiamo distante. La vita, nell’accezione più totale del termine, non può prescindere dalla libertà. Non solo di muoversi o camminare, il corpo è il veicolo della mente, ma soprattutto di pensare e agire di conseguenza.
“Mare dentro, mare dentro/senza peso nel fondo/dove si avvera il sogno”.
Titolo originale: Mar Adentro
Genere: drammatico-colore
Durata: 125’
Regia: Alejandro Amenabàr
Spagna – 2004