Quarto e ultimo approfondimento sul Rapporto Svimez 2016 dedicato alle politiche di coesione. Due i temi fondamentali: i cicli di programmazione dei fondi strutturali 2007/13 e 2014/20 e i paralleli cicli del Fondo di Sviluppo e Coesione.
Una considerazione di scenario. Secondo Svimez nell’Unione Europea crescono i divari regionali di sviluppo e sembrano penalizzare proprio le tradizionali “regioni convergenza”. Infatti, mentre le regioni della convergenza dell’Est avanzano con un ritmo sostenuto, le regioni meridionali del Mediterraneo segnano il passo quando non arretrano ulteriormente. Questa tendenza vale, seppur con andamenti differenziati, sia per il PIL sia per l’indice di Progresso Sociale (SPI), sia per l’Indice sintetico di competitività (RCI). Un quadro, quindi, molto preoccupante.
I lettori avranno modo di riflettere sulle valutazioni del Rapporto Svimez sulla chiusura del ciclo di programmazione 2007/2013 e sull’avvio di quello 2014/2020. Ci permettiamo si aggiungere una sola considerazione: l’una e l’altro finiscono per evidenziare ancora una volta l’inadeguatezza programmatoria e gestionale delle Pubbliche Amministrazioni meridionali chiamate a gestire i singoli programmi regionali. L’istituzione dei PAC è l’ennesima testimonianza di un escamotage messo in campo esclusivamente per evitare il disimpegno automatico delle risorse. La chiusura dei programmi è avvenuta in piena emergenza, l’avvio dei nuovi con i soliti ritardi. Naturalmente ne ha risentito, e presumibilmente ne risentirà, la qualità degli interventi e l’efficacia della spesa.
Per parte sua il Fondo Sviluppo e Coesione mette in campo risorse importanti. Masterplan e Patti per il sud testimoniano, indubbiamente, un rinnovato interesse per le aree meridionali. Ma le strutture amministrative che dovranno gestire questa ingente mole di risorse sono sempre le stesse, quelle che non hanno saputo ottimizzare l’utilizzo dei fondi comunitari e che hanno cercato di evitare il definanziamento solo attraverso una dilatazione dei tempi di spesa. Sapranno fare meglio con le risorse nazionali? Speriamo, ma al momento è solo un atto di fede. E ancora, una molteplicità di nuove opere pubbliche, in presenza di un quadro strategico spesso “sfuggente”, riuscirà a determinare sviluppo duraturo e a migliorare la complessiva efficienza del sistema? Anche in questo caso siamo di fronte a un atto di fede.
Le politiche di coesione nel Mezzogiorno
Con il 2015 si è concluso il ciclo di programmazione 2007-2013, forse il più critico della storia recente della coesione europea e nazionale. Di certo, è stato quello che più si è allontanato dagli standard europei e dalle sue stesse premesse – finanziarie, programmatiche e operative – contenute nel quadro strategico iniziale. A gravare sull’attuazione degli interventi, dal 2008 in poi, è stato tutto il peso della lunga crisi, che ha avuto un impatto asimmetrico dal punto di vista territoriale, scaricando sul Mezzogiorno gli effetti peggiori dell’austerità. La crisi ha inoltre portato allo smantellamento del quadro unitario sul piano delle fonti finanziare, con il sostanziale venir meno della leva nazionale delle politiche di coesione. Gli aspetti maggiormente problematici che la SVIMEZ ha ampiamente evidenziato riguardano la mancanza di un coordinamento strategico nella gestione delle politiche, la frammentazione e dispersione degli interventi e il mancato nesso con le politiche generali ordinarie. In questo quadro, importante e non scontato il conseguimento dell’obiettivo del pieno assorbimento delle risorse europee alla chiusura del ciclo: i dati a nostra disposizione, ad oggi, fanno pensare che l’obiettivo sia stato pressoché interamente realizzato nella generalità dei Programmi. L’obiettivo di spesa è stato centrato soprattutto grazie all’espediente «straordinario» a fine 2011 della riprogrammazione del Piano di Azione Coesione, che ha ridotto la dotazione complessiva dei Programmi e aumentato la quota di cofinanziamento europeo, facilitando il raggiungimento dei target di spesa ammissibili ai rimborsi comunitari. Si tratta di un meccanismo utile in via emergenziale per contrastare il rischio di perdere risorse comunitarie, ma che non affronta i nodi strutturali dell’efficacia delle politiche di coesione. Le Amministrazioni che negli anni hanno mantenuto nel tempo buone performances attuative hanno realizzato i Programmi per tempo senza ricorrere a questo meccanismo e senza disperdere la dotazione destinata alle iniziali strategie di sviluppo: meritano di essere ricordati, in particolare, il PON «Istruzione» e i POR di Puglia e Basilicata.
Dal 2012 si sono messi in campo meccanismi più strutturali per affrontare i nodi critici dell’amministrazione della coesione: dal rafforzamento di un centro di coordinamento e controllo strategico all’istituzione di task force territoriali per migliorare le perfomances, dalla modifica della complessa governance delle politiche di coesione con la costituzione di un’Agenzia per la Coesione e lo spostamento alla Presidenza del Dipartimento, al ripristino da ultimo di un’Autorità politica delegata alla coesione in grado di assicurare un costante commitment. Si è dimostrato utile il rafforzamento della trasparenza realizzata attraverso iniziative come OpenCoesione. L’insieme di questi correttivi, però, non sembra aver ancora prodotto effetti decisivi né nel ciclo concluso (2007-2013), né nel ciclo in corso (2014-2020). In chiusura, le Amministrazioni si sono lasciate margini importanti negli impegni per riconsiderare, in occasione della certificazione delle spese a valer sui Fondi strutturali, interventi già previsti e finanziati su altre fonti. Il ricorso a “progetti retrospettivi” determinano un effetto di «spiazzamento» che si è realizzato in particolare sul PAC e, soprattutto, sul FSC, che hanno finito per rappresentare dei «bacini di overbooking» per progetti poi rendicontati con risorse europee. Gli strumenti e i meccanismi predisposti per raggiungere il massimo grado di rendicontazione delle risorse dei Programmi, come avvenuto in passato, hanno agito più sulla «quantità» della spesa che sulla «qualità» della programmazione.
Il nuovo ciclo 2014-2020
A due anni e mezzo dall’inizio, le prime battute del nuovo ciclo di programmazione evidenziano una situazione di ritardato avvio. Il lavoro delle Amministrazioni, tutto concentrato lo scorso anno sulla chiusura del 2007-2013, si è fin qui concentrato sulle architetture, l’impostazione dei meccanismi di gestione, e la progettazione operativa piuttosto che su una diffusa attività di bandi, gare ed assegnazioni. I segnali frammentari di attività che si manifestano vengono in maggioranza da regioni più sviluppate, tranne qualche eccezione. Le criticità segnalate nell’ambito della gestione amministrativa – lentezze burocratiche, eccessivo avvicendamento dei vertici politici/strutture amministrative, farraginosità delle procedure nazionali e comunitarie, difficoltà tecniche o progettuali – sembrano riproporsi senza forti discontinuità.
Sul piano strategico, invece, la positiva novità dell’Accordo di Partenariato, prevede interventi che mirano ad irrobustire l’attività economica dei territori per creare occupazione: purtroppo, non sembra vi sia stato un significativo sforzo di concentrazione e anzi, si è via via registrata una tendenza alla frammentazione delle azioni. Tra le novità più interessanti di questo ciclo di programmazione c’è il recupero della centralità di progetto in fase attuativa. Tale approccio, adottato in relazione a progetti significativi come quello della banda ultralarga, concentra intorno ad un progetto unitario e sovraregionale attenzione politica, coordinamento amministrativo e capacità tecnica, integrando le singole componenti progettuali e finanziarie in un disegno unitario coerente con una policy nazionale. La principale caratteristica del nuovo ciclo 2014-2020, ma anche il suo limite di fondo, è il «superamento» dell’unitarietà della programmazione che aveva caratterizzato l’impianto strategico del 2007-2013. Nell’Accordo di Partenariato, infatti, la cornice unitaria delle scelte di politiche di coesione nazionali ed europee, che fu la positiva intuizione del QSN 2007-2013, sembra essere venuta meno. Oggi, la programmazione poggia su tre pilastri: i Fondi strutturali e di investimento europei, la «programmazione parallela» finanziata con la riduzione del cofinanziamento nazionale ai Programmi Operativi, e il Fondo di Sviluppo e Coesione. Il problema principale è che ciascuno di questi pilastri ha una sua specificità, con procedure, tempi e soggetti coinvolti differenti, che riduce la portata strategica di un complesso di interventi che doveva seguire invece obiettivi e principi comuni: coordinamento, complementarietà, unitarietà, strategicità. Discutibile appare la scelta di confermare a inizio del ciclo una «programmazione parallela», un PAC 2014-2020: aver trasformato in strutturale un meccanismo emergenziale sembra il segno di una rinuncia a priori al miglioramento della capacità gestionale e di spesa della maggioranza delle Amministrazioni della coesione nel Mezzogiorno. Ad aggravare il quadro, nel corso del 2015, è sopravvenuta la mancata programmazione del FSC per il nuovo ciclo, che per quanto distinta da quella dei Fondi strutturali, avrebbe dovuto offrire una certezza di governance, procedure e tempistiche previste dalla legge di stabilità per il 2015, a lungo disattese. Il ritardo è stato recuperato solo nell’agosto di quest’anno.
Il Masterplan e i Patti per il Sud
Una positiva discontinuità, intervenuta tra la fine del 2015 e i primi mesi di quest’anno, è stata l’adozione del Masterplan e dei conseguenti Patti per il Sud, la cui novità principale, sul piano delle fonti di finanziamento, è aver rappresentato la prima organica (benché parziale) programmazione del FSC 2014-2020. Al di là di alcuni ritardi e limiti dell’impostazione, si tratta di un piano di intervento importante, che prevede la mobilitazione dell’insieme delle risorse disponibili per la coesione europea e nazionale, e individua le aree strategiche di intervento che appaiono condivisibili.
Il primo positivo segnale di discontinuità da segnalare è il tentativo di recuperare il coordinamento strategico delle risorse per la coesione europea e nazionale, che manca nell’Accordo di Partenariato. È un intento che, ad oggi, per quanto riguarda le fonti di finanziamento, sembra essere raggiunto solo parzialmente. Su investimenti attivabili per un totale, ad oggi, di 37,5 miliardi, 10,2 sono risorse già variamente assegnate, 12,6 sono imputati al FSC 2014-2020, e 14,7 sono individuati nelle altre fonti di nuova programmazione. Tuttavia, il grado di varianza regionali delle fonti di finanziamento implica che il coordinamento va perseguito nel singolo intervento, con esiti che di volta in volta possono essere molto diversi, a causa della scarsa definizione delle procedure. Inoltre, l’impatto finanziario per il biennio 2016-2017 risulta dal cronoprogramma alquanto modesto (appena 1,9 miliardi di euro per l’FSC), rendendo il rischio di sostitutività molto concreto. Per quanto riguarda la qualità delle scelte programmatorie, va segnalata anzitutto, sul piano del metodo, la scelta di un approccio bilaterale Governo-Regioni e Governo-Città metropolitane, che caratterizza i Patti. Tale approccio ha un risvolto negativo e uno positivo: da un lato, fa perdere di vista la strategia complessiva per la macroarea, in assenza di progetti che superino la dimensione regionale; dall’altro, fa emergere le priorità di sviluppo del territorio, per cui al centro non sono i fondi e loro procedure di spesa, come purtroppo è accaduto nell’attuazione delle passate programmazioni, ma i progetti. Una sintesi dei Patti per aree di intervento allo stato attuale ci porta a valutare positivamente l’«integrazione» operata dai Patti, rispetto alle scelte di programmazione europea della coesione: le infrastrutture che là erano state fortemente ridimensionate, qui raggiungono una percentuale, dovuta al forte apporto di risorse FSC, di quasi un terzo del totale, 12,3 miliardi di euro (sui 37 complessivi), e così l’ambiente, con oltre 11 miliardi; per lo sviluppo economico e le politiche industriali sono previsti circa 7 miliardi complessivi; 2,4 miliardi per il turismo e la cultura; 3 miliardi per welfare, inclusione sociale e sicurezza e 1,2 per l’istruzione e la formazione. Sul piano della governance, un elemento molto positivo è l’esplicitazione delle responsabilità reciproche, tra Governo e Amministrazioni coinvolte, nell’attuazione dei Patti; il soggetto attuatore individuato in via preferenziale è INVITALIA, con la previsione degli strumenti di accelerazione e le facoltà di esercizio di poteri sostitutivi, in capo alla Presidenza del Consiglio.
L’auspicio è che su questo fronte si produca una forte e duplice discontinuità, anche con il recente passato: da un lato i Contratti Istituzionali di Sviluppo già in essere, con i relativi cronoprogrammi previsti, hanno generalmente evidenziato una mancanza di cogenza nel rispetto degli impegni; dall’altro, l’esercizio del potere sostitutivo fin qui è stato solo formale, per la mancanza di bracci operativi centrali in grado di sostituirsi in quell’intervento e in quel territorio, alle Amministrazioni inefficienti. Tale esercizio si è finora sostanzialmente risolto nella sanzione facile, e tutta politica, del definanziamento degli interventi, facendo pagare due volte ai cittadini meridionali il costo delle inefficienze amministrative. Ad oggi è difficile dire se il Masterplan possa rappresentare quella svolta strategica nelle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno. L’auspicio anche in questo caso è una tempestiva definizione delle diverse e ulteriori fonti di finanziamento, per accelerarne l’impiego e massimizzare un impatto che nel breve periodo sembra ancora troppo limitato. La complessa governance delle politiche di coesione, dal 2016 finalmente provvista di un’Autorità politica delegata, non deve porsi soltanto l’obiettivo, pur essenziale, dell’accelerazione della spesa dei Fondi strutturali: senza un forte impegno di coordinamento, di unitarietà e strategicità della programmazione; anche questo finirebbe per produrre quegli effetti sostitutivi che hanno minato l’efficacia del ciclo 2007-2013. D’altro canto, è necessario accompagnare i Patti, che hanno inevitabilmente una forte caratterizzazione bilaterale, con una strategia sovraregionale chiara. Si ritiene dunque necessario programmare operativamente al più presto la parte restante dell’FSC 2014-2020, ma soprattutto predisporre linee di intervento nelle politiche ordinarie delle Pubbliche Amministrazioni che tengano conto degli impatti territoriali.
La sfida, per attivare una dinamica di convergenza nel Mezzogiorno, accanto a una politica generale nazionale ed europea che la favorisca (che fin qui è mancata), resta quella dell’addizionalità. Una sfida che risulta ancora più decisiva proprio perché, a fronte di una previsione tendenziale che vede un sensibile rallentamento della crescita nell’area, si potrebbe registrare una performance sicuramente migliore qualora lo spazio di investimenti aperto con le diverse «clausole di flessibilità» risultasse davvero aggiuntivo e non sostitutivo.