Assistiamo a una moltiplicazione di migranti che muoiono in mare al largo della Libia, o che sono ripescati e portati nei campi libici di “detenzione ufficiale”.
È di pochi giorni fa un naufragio che ha visto dispersi in mare, in base alle testimonianze dei sopravvissuti, oltre cento individui a causa dell’affondamento di un barcone.
L’ Unhcr sostiene che la barca in questione sia rimasta almeno una settimana al largo senza che nessuno intervenisse a salvare vite.
La notizia di questa ennesima tragedia del mare ha indignato e non poco le associazioni che si sono sempre adoperate per salvare le persone al meglio delle loro possibilità e in concreto tutte sostengono che le responsabilità di queste morti siano da addebitare all’Italia e all’Europa.
Ciò che per esempio viene contestato da padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli è che le politiche europee di chiusura mostrano la loro inadeguatezza nel gestire il fenomeno complesso delle migrazioni e afferma anche: «Umanità e lungimiranza guidino i governanti nel prendere decisioni che mettano al centro la persona e ispirino i cittadini ad aprirsi all’altro, in un’ottica di promozione umana e solidarietà».
Se da un lato le trattative con la Libia hanno ridotto il numero degli arrivi dei migranti in Italia, dall’altro è innegabile che ci sia un inasprimento delle violenze su persone indifese, in fuga da guerre, fame e miseria. Per loro l’Europa benché ostile all’accoglienza, rappresenta la salvezza fosse anche solo per ragioni geografiche.
Peccato però che, nella contingenza, i campi di detenzione si siano rivelati simili a veri e propri lager: scarsità o addirittura assenza di cibo, condizioni di vita disumane, sistematiche violenze a danni di donne e uomini con stupri e percosse.
I migranti continuano quindi ad essere vittime della tratta di esseri umani e il Centro Astalli chiede a tutte le istituzioni l’attivazione immediata di vie legali che consentano a chi fugge da guerre e persecuzioni di arrivare in Europa per chiedere protezione. Sempre che l’Europa sia disposta ad accogliere.
L’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) parla di naufragi che potevano essere evitati e reclama a gran voce il ritorno delle Ong nell’area. Proprio in quell’area Sar (Search and Rescue) dove le attività delle Ong sono state fatte cessare sia a seguito delle pressioni esercitate dal governo italiano attraverso il codice di condotta imposto alle Ong, sia a seguito della proclamata competenza sull’area da parte della Libia. Che, successivamente, si è disinteressata completamente di quell’area ora abbandonata e nella quale le attività di soccorso risultano assenti.
I migranti muoiono, continuano a morire. E se non muoiono fisicamente, si spengono dentro lo squallore di luoghi da cui non possono fuggire. E allora sorge, prepotente e insolente – ma tuttavia logica –, una domanda: morire in mare o nei campi libici?