“Miseria Ladra”: la campagna di Gruppo Abele e Libera contro tutte le povertà

“Miseria Ladra”: è questo l’emblematico nome della campagna che ormai da due anni viene portata avanti dal Gruppo Abele, con il sostegno di Libera e l’adesione di oltre 1000 realtà del sociale e del volontariato laico e cattolico. L’iniziativa, rilanciata nel mese di ottobre 2015 in occasione della Giornata Mondiale della Povertà (17 ottobre), intende proporre “una visione e un approccio teso a difendere l’interesse generale, contrastando le mafie all’interno di una visione europeista fondata sulla cultura dei diritti e del welfare come elemento di civiltà”, come spiegano i promotori.

Le proposte della campagna intervengono sia su situazioni emergenziali e contingenti che vanno affrontate e risolte nell’immediato, come il blocco degli sfratti, l’utilizzo dei beni confiscati per fini sociali e la residenza per i senza fissa dimora, sia sulle cause strutturali della povertà e della crisi, attraverso proposte da attuare nel medio e lungo periodo come la rinegoziazione del debito pubblico. Le proposte di Miseria Ladra sono per queste ragioni suddivise a livello territoriale, nazionale ed europeo.

All’origine della campagna nazionale contro tutte le forme di povertà, Miseria Ladra, che rappresenta un vero e proprio cantiere aperto a tutte le associazioni del volontariato, ambientaliste, alle cooperative del sociale, la presa di coscienza di un fenomeno che da anni tocca tragicamente e in misura crescente alcune fasce sociali.

Secondo i dati del rapporto Istat del 2013, infatti, sono più di 10 milioni le persone in povertà relativa e 6 milioni in quella assoluta. Per Eurostat un italiano su tre è a rischio povertà. I minori indigenti sono passati da 723 mila a 1 milione e 434 mila. Il rischio di rimanere in condizioni di indigenza nel nostro paese è tra i più alti d’Europa: 32,3% rispetto alla media del 26%. Anche la dispersione scolastica ha subito un’impennata, arrivando al 17,6% contro il 13,5% della media europea. Gli homeless sono aumentati: se ne stimano circa 50 mila, soprattutto a nord-ovest (38,8%). Il 63% delle famiglie ha ridotto la spesa alimentare. Il 40% vive in condizioni di deprivazione materiale; una famiglia su quattro soffre di deprivazione materiale grave.

“Non c’è, del resto, più tempo da perdere di fronte a un trend inequivocabile”, prosegue il Gruppo Abele, “ogni anno è sempre peggio. I dati del 2013 denunciano e confermano un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e sociali. Aumento della povertà, maggiori ingiustizie sociali e ambientali, frammentazione della coesione sociale, corruzione, limitazioni e tagli nell’erogazione dei servizi sociali, rendono ancora più macroscopiche le diseguaglianze, favorendo la spirale negativa che riproduce la crisi”.

Da qui l’idea di dar vita alla campagna Miseria Ladra, nata con la pubblicazione di un relativo dossier, datato 2013 ma ancora estremamente e tristemente attuale, di cui di seguito presentiamo uno dei capitoli (leggi la versione integrale).

 

Disuguaglianza, crisi economica e crisi morale

Povertà assoluta e povertà relativa sono in aumento non solo per l’effetto della crisi economica. E’ da almeno 10 anni che il numero degli impoveriti è aumentato in Italia, perché da circa il 1980 ad oggi si è assistito ad un enorme trasferimento di ricchezza dalle tasche dei lavoratori dipendenti ai profitti prima, e alla rendita finanziaria e speculativa poi. Si calcola che in 30 anni la perdita di capacità di acquisto dei lavoratori sia stata ridotta di circa il 20%. Gli ammortizzatori messi in campo (CIG e altre forme) seppur importanti e comunque molto costosi, non hanno però favorito un reale reintegro dei lavoratori e certamente non hanno prodotto un “ripensamento” del tempo pagato e che poteva e potrebbe essere “riempito” con molte opportunità a favore del lavoratore (fare qualcosa di utile e sentirsi utile, acquisire nuove abilità,…) e della società (una sorta di servizio civile obbligatorio…).

L’effetto delle dismissioni di alcune attività industriali e delle delocalizzazioni della produzione manifatturiera nei paesi in cui è minore il costo del lavoro, non ha solo generato disoccupazione, ma di fatto ha comportato la compressione dei salari degli stessi occupati e in particolare per i neo assunti. Con il dilagare delle assunzioni a tempo determinato si è creata un’area sempre più crescente di “precarietà”; tra gli occupati è stato messo in crisi e consentito l’attacco ai diritti consolidati dei lavoratori; sul piano della previdenza si è messo mano alla riforma pensionistica; rispetto alla stato sociale si sono ulteriormente ridotti i margini del welfare, da sempre considerato una fonte di retribuzione indiretta. La crescente crisi del mercato del lavoro si è tradotta in un significativo aumento del tasso di disoccupazione che dal 10,7 per cento del 2012 ha superato il 12% nel 2013.

Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione ha raggiunto nell’area euro la soglia del 12 per cento. Nel Mezzogiorno la crescita della disoccupazione è stata particolarmente marcata: il tasso di disoccupazione è cresciuto di 3,6 punti percentuali fino a raggiungere il 17,2 per cento. Dal 2008 i disoccupati sono aumentati complessivamente di oltre il 60 per cento, del 30,2 per cento solo nel 2012 (oltre 600 mila unità). Molta della crescita dell’ultimo anno è dovuta ai lavoratori che hanno perso il lavoro e ne cercano uno nuovo (sei casi su dieci) ma una parte non esigua è ascrivibile all’aumento di chi, prima inattivo e con precedenti esperienze di lavoro, ha deciso di cercare lavoro e di chi è in cerca di prima occupazione, in entrambi i casi soprattutto donne. Quanto alle età, quasi la metà della crescita è dovuta ai 30-49enni, ma il divario tra questi e i giovani di 15-29 anni in termini di tassi di disoccupazione si è ampliato ed è pari nel 2012 a ben 16 punti percentuali a sfavore dei più giovani. Con la crisi si sono accentuate anche le differenze territoriali: la quota dei disoccupati meridionali sul totale, diminuita fino al 2011, ha ripreso a crescere nell’ultimo anno; la differenza dei tassi tra Nord e Mezzogiorno è aumentata di circa 2 punti percentuali tra il 2011 e il 2012 – il tasso di disoccupazione si è attestato al 7,4 per cento nel Nord e al 17,2 per cento nelle regioni meridionali. Ancora più allarmanti i numeri sul tasso dei senza lavoro tra i 15-24enni “attivi” (cioè coloro che cercano o che hanno lavoro) che si attesta al 41,9% nel primo trimestre del 2012 raggiungendo il 40,5% ad aprile, il massimo storico assoluto, ovvero il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Nella fascia dei lavoratori più giovani le persone in cerca di lavoro sono 656mila e rappresentano il 10,9% della popolazione in questa forbice.

Il processo di finanziarizzazione dell’economia, e l’esito stesso della “bolla” speculativa, hanno ulteriormente contribuito a concentrare la ricchezza nelle mani di minoranze sempre più esigue, aumentando la forbice tra pochi ricchi e molti poveri, erodendo progressivamente le conquiste dei lavoratori, le sicurezze e le garanzie conseguite dal ceto medio dal “boom” economico del dopoguerra fino alla fine degli anni ’70. In alcuni settori, e per alcuni contesti lavorativi di particolare fragilità della manodopera, il divario tra ricchi e poveri, e la disuguaglianza che si genera per l’instaurarsi di meccanismi di sfruttamento che rasentano e ricordano lo schiavismo, appaiono emblematiche delle tendenze che si stanno imponendo su un mercato del lavoro che si vorrebbe totalmente deregolamentato e in preda ai meri rapporti di forza tra le parti. Lo sfruttamento della manodopera straniera in agricoltura (in cui i nuovi latifondi lamentano 30.000 posti di lavoro non occupati dagli italiani), non è solo più una questione del sud d’Italia e di situazioni quale quella di Rosarno. Denunce e inchieste condotte in Piemonte, hanno portato alla luce situazioni di gravissimo sfruttamento lavorativo, dove il salario effettivo di un migrante si aggira intorno ai 300 euro al mese per 10-12 ore al giorno di lavoro. La crisi economica produce effetti devastanti perché si radica in una “crisi” morale, di cui in qualche modo ne è l’espressione.

La corruzione e la corruttibilità dei comportamenti, che tanta parte giocano nell’alimentare l’economia illegale, costituiscono lo strumento e il vulnus con cui avviene, prima ancora che la penetrazione mafiosa nelle attività economiche territoriali, l’indebolimento di un tessuto sociale che legittima il lavoro nero, le mancate fatturazioni, l’evasione fiscale e tutti i tipi di “accordi”, reciprocamente vantaggiosi, al di fuori delle regole stabilite. In tempi di crisi, c’è chi la crisi la combatte e c’è, invece, chi la cavalca facendo affari, investendo, controllando il territorio, assumendo personale. E prestando soldi. Fiumi di soldi. E con gli interessi. I clan intercettano quel segmento di disperazione e rispondono subito e in contanti. Con la crisi dilaga la pratica usuraia. Si parla di usura di mafia; quella gestita dalla criminalità organizzata. Clan che da un bel pezzo ormai, hanno capito, come fare tanti soldi con i soldi.

Sono ben 54 i clan mafiosi che negli ultimi ventiquattro mesi compaiono nelle Relazioni Antimafia, nell’ inchieste e nelle cronache giudiziarie che riguardano i reati associativi con metodo mafioso finalizzati all’usura. Insomma, i clan hanno fatto di questa attività un ramo fondamentale della loro impresa, avendo la possibilità di riciclare gli immensi proventi del traffico di droga o del giro delle scommesse, e in tal modo penetrando a fondo nel tessuto dell’economia legale. Nel loro mirino aziende redditizie e attività commerciali floride che in tempo di crisi – anche quelli meglio strutturati – hanno la necessità urgente di accedere a crediti per non perdere commesse e di conseguenza essere tagliati fuori dal mercato. In questi casi solo l’usuraio mafioso può essere in grado di movimentare e rendere disponibili ingenti somme di denaro in breve tempo. E con i soldi, accompagnati da una costante violenza psicologica ma anche fisica, il passo successivo è inevitabile: il prestito ad usura, che da un lato permette al titolare dell’azienda di salvarla (questo è ciò che crede), dall’altro il clan si impossessa di fatto di quell’azienda e di quell’attività economica trasformandola in una propria lavanderia. Con rischi vicini allo zero, perché l’usura, e a maggior ragione quella mafiosa, è un reato che non si denuncia.

La diffusione della cultura dell’illegalità e della “mafiosità”, intesa come mentalità disposta a “soprassedere” alle regole e ai diritti degli altri per il proprio tornaconto personale, sono a loro volta il risultato di processi sociali degenerativi che si sono affermati nel tempo e hanno progressivamente logorato il senso di responsabilità, il legame sociale, e la “tenuta” valoriale delle comunità locali: le disuguaglianze conclamate (il reddito di un manager 30 volte superiore a quello di un dipendente), le retribuzioni e le spese ingiustificate della “casta” politica, l’ostentazione dei privilegi, i veri e propri soprusi effettuati da chi ha abusato di situazioni di potere, i tanti scandali, quasi quotidiani, di troppi amministratori, le violazioni impunite della legge consentite ai potenti dal ginepraio e dalle contraddizioni delle disposizioni. Un caso emblematico è rappresentato dalla crescita costante, proprio in questa stagione di crisi economica, dei fenomeni più gravi di aggressione criminale all’ambiente, dall’abusivismo edilizio ai traffici illeciti dei rifiuti, che vedono le ecomafie arricchirsi ancora di più, mentre intere aree del paese, in particolare nei territori più fragili e già esposti a fenomeni di impoverimento, come la Campania e la Calabria, vengono deprivate di importanti risorse ambientali. Secondo il Rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente, ogni giorno in Italia vengono accertati 93,5 reati ambientali, a una media di 3,9 illeciti ogni ora, pari ad un totale di 34.120 reati. Nell’arco di un triennio, l’incremento del numero di reati contro l’ambiente è cresciuto, nel nostro Paese, del 17,6%. Sono gli anni, quelli dal 2010 al 2012, della crisi economica più buia, con il Pil in netta flessione, il tracollo della produzione industriale e dei consumi delle famiglie, il collasso del mercato immobiliare. La distribuzione degli illeciti sul territorio nazionale conferma, anche quest’anno, la netta prevalenza delle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), dove si concentrano il 45,7% degli illeciti.

Visita il sito della campagna Miseria Ladra.

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Redazione