Il termine femminicidio esiste in Italia solo dal 2001. Prima di questa data l’unica parola che facesse riferimento all’uccisione di una donna era uxoricidio, che alludeva al delitto della stessa in quanto moglie. Piccola conquista terminologica: abbiamo coniato un apposito neologismo per dare nome a quello che ormai è un dramma devastante.
Molto bene, ora abbiamo una parola più corretta a nostra disposizione per descrivere la punta dell’iceberg del vero problema che invece si nasconde sotto: la violenza sulle donne.
Non è una battaglia terminologica, la mia. È che sono stufa in quanto essere umano e in quanto donna di ascoltare e leggere notizie in cui, espletato il legittimo dovere di cronaca, il tema della violenza si perde come un uomo del Neolitico sbattuto in una metropoli.
Dettagli scabrosi della vittima di turno morta perché voleva porre fine alla sua relazione, foto raccapriccianti che sul Web compongono l’album dell’orrore, troupe televisive inviate sul luogo del delitto per immortalare facce giustamente o meno cadute dal pero che dicono «era una così brava persona» e «chi se lo sarebbe mai aspettato».
In questa giungla di spettacolarizzazione della tragedia, il vero problema è che la violenza la fa franca, viene quasi relegata ai margini, come qualcosa da accettare e basta. Filtra un messaggio pericoloso e sinistro: la violenza contro le donne è un fatto secondario rispetto alla sua estrema conseguenza, la morte. Tutt’al più si parla della faccenda in termini di “fenomeno sociale” senza analizzare la vera radice del problema e cioè che i comportamenti violenti sono già di per sé la base di una tragedia che prima o poi si verificherà. E se anche non dovesse verificarsi vogliamo o non vogliamo spendere due parole sull’educazione al rispetto, sul fatto che il “no” di una donna ha il suo significato e valore, che assistiamo ogni giorno ad autentiche sopraffazioni che etichettiamo come superficialità di poco conto?
Altrimenti perché diamine dovrei sentirmi offesa – e invece mi ci sento – quando le trasmissioni televisive, i giornali, il popolo del Web mi propone decaloghi su decaloghi, mi spiega come dovrei difendermi dall’aggressore di turno, mi suggerisce cosa mettere in borsetta o come individuare l’identikit dell’uomo malvagio?
Io mi sento offesa ma loro hanno ragione, danno consigli. Però è sconfortante.
È sconfortante che una donna debba esercitarsi a scansare attenzioni, dribblare pressioni psicologiche, riflettere se sia il caso o meno di fornire i propri recapiti, percepire le mani dell’uomo come una minaccia.
Mentre le donne si allenano a rimanere in vita, mi domando, siamo così sicuri che tutti gli uomini sappiano cosa significhi commettere una violenza? Le vittime stesse ne sono consapevoli? A fronte dei numerosi decaloghi che milioni di donne nel mondo hanno dovuto leggere, forse varrebbe la pena distribuirne alcuni anche per gli uomini e per le tante che, già inconsapevolmente invischiate dentro un circuito di violenza, non lo sanno ancora ma potrebbero occupare le prime pagine dei giornali di domani.
Allora diciamolo ai signori uomini che lo stress lavorativo non giustifica uno schiaffo, che i fantomatici ormoni in subbuglio non sono il passepartout per stuprare coetanee, che la minigonna non è un invito a niente, che un bacio non è il lasciapassare per un rapporto sessuale non consenziente, che “l’uomo che non deve chiedere mai” è solo lo slogan di una pessima pubblicità per dopobarba e che il “non ci stavo con la testa” presupporrebbe avercela, una testa.
Spieghiamo che esiste una violenza più subdola e non meno grave, che è quella verbale, fatta di ricatti, manipolazioni, raggiri. I signori uomini devono essere al corrente che non sono autorizzati ad apostrofare nessuno con gli appellativi più bassi e degradanti e non esiste gelosia o abitudine o qualsiasi alibi che tengano, o la scusante di un lessico ridotto a cento parole di cui novanta sono insulti.
Diciamo anche che gli ordini non si impartiscono neanche ai cani e men che meno si urlano.
Non si fa appello all’educazione ricevuta, alla religione di appartenenza, alla propria barbara megalomania per giustificare comportamenti di cui sopra. Eppure emeriti dotti e dotte di turno lo fanno, inconsapevolmente stanno dalla parte della violenza quando tirano in ballo i dettami della religione, la sottocultura del machismo, etichettano come goliardia episodi entro cui il rispetto della donna va a farsi benedire.
Bisogna che la piantiamo una volta per tutte di fornire alibi ad hoc per gli uomini violenti. Bisogna che la smetta l’opinione pubblica, la signora del piano inferiore, l’anziano ai giardinetti pubblici e la famiglia riunita a tavola.
Non esiste alcun alibi per la violenza, bisogna che lo comprendiamo davvero.
Lo si dica chiaramente, lo si spieghi con i disegnini sulla lavagna se necessario, che l’uomo che lavora non ha il diritto di trasformare la casalinga nella sua donna di servizio, che non si ricatta una madre inserendo nella frase la parola “figlio”, che preti, parenti, amici, conoscenti che invitano alla sopportazione sono tutti, consapevolmente o meno, dalla parte del boia.
Abbiamo tutti gli strumenti per comprendere che la violenza va condannata senza se e senza ma – e basta alibi, basta – e che ciò che minimizziamo oggi, domani sarà un’enormità di cui qualcuno pagherà le conseguenze. Se non riconosciamo e condanniamo i comportamenti violenti, non saremo in grado di educare nessuno. Nemmeno noi stessi.