Intanto un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Torino apre nuove prospettive per la lotta alla malattia
Trattare subito tutti i pazienti sieropositivi, indipendentemente dalla carica virale, e dare i farmaci anche alle persone non infette ma ad alto rischio: è questa la ricetta prevista dalle nuove linee guida sui trattamenti per l’Aids pubblicate oggi dall’Oms. Si tratta di una strategia che, a detta dell’Organizzazione mondiale della Sanità, consentirebbe di evitare 21 milioni di morti entro il 2030, aumentando il numero di persone che riceve gli antiretrovirali nel mondo passerebbe dai 28 milioni attuali a 37 milioni.
Secondo numerosi studi, infatti, l’uso precoce della terapia non solo aumenta la sopravvivenza, ma riduce il rischio di contagio, al punto che la strategia “treat all” potrebbe evitare anche 28 milioni di nuovi casi. Per quanto riguarda la profilassi, mentre le linee guida del 2014 la prevedevano solo per gli omosessuali, ora dovrebbe essere allargata a tutti i gruppi più a rischio.
«L’uso preventivo dei farmaci dovrebbe essere visto come una possibilità da aggiungere a una serie di servizi», evidenzia il documento dell’Oms, «che vanno dai test per l’Hiv al supporto psicologico all’accesso a profilattici e siringhe pulite».
Intanto uno studio condotto da Massimo Pizzato e dal suo gruppo di ricerca presso il Centro per la biologia integrata (Cibio) dell’Università di Trento apre ora nuove prospettive. I ricercatori hanno infatti scoperto l’esistenza nelle cellule di un potentissimo inibitore naturale dell’infezione virale, chiamato Serinc5, in grado di neutralizzare l’Hiv e altri virus simili. La capacità dei virus di infettare le cellule dipende dalla loro abilità di eludere questa difesa naturale, finora sconosciuta.
In concomitanza con lo studio dell’ateneo italiano, il laboratorio di Heinrich Gottlinger della University of Massachussetts ha ottenuto gli stessi risultati usando una diversa metodologia, rafforzando dunque la portata e la significatività della scoperta. I risultati di entrambi gli studi sono pubblicati nello stesso numero di ‘Nature’.