Qualche mese fa, precisamente l’11 novembre 2015, è stata depositata alla Camera dei Deputati la proposta di legge di “Modifica al testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in materia di popolazione dei comuni e di fusione dei comuni minori”. Primo firmatario il deputato PD Emanuele Lodolini. Lapidario il testo di legge. “All’articolo 13 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è aggiunto, in fine, il seguente comma: 2-bis. Un comune non può avere una popolazione inferiore a 5.000 abitanti”. Sono concessi 24 mesi alle regioni per provvedere alla “fusione obbligatoria dei comuni la cui popolazione sia inferiore a 5.000 abitanti e che non abbiano già avviato autonomamente procedimenti di fusione”. Chiara la penalizzazione per gli inadempienti: nessun contributo o beneficio. Serie ripercussioni anche sulle regioni che entro 48 mesi dall’entrata in vigore della legge non abbiano provveduto a esercitare i poteri sostitutivi.
Le reazioni sono state vivaci. I sindaci dei piccoli comuni, pur dichiarando la propria disponibilità a mettere in atto fusioni volontarie e gestioni associate dei servizi, hanno rigettato con decisione ogni procedura coercitiva.
Per comprendere lo stato d’animo e le convinzioni degli amministratori locali possiamo prendere a esempio quanto sostenuto nell’ordine del giorno approvato nello scorso mese di febbraio dal Comune di Vasanello, centro di oltre 4.000 abitanti in provincia di Viterbo.
“Proposta di soli tre miseri articoli che, con un colpo di mano, cambia di netto la geografia e la storia millenaria del nostro paese sostituendosi e sottraendosi alla volontà dei cittadini. Un duro colpo non solo alla democrazia diretta e rappresentativa, ma anche all’autodeterminazione di chi governa, all’identità ed all’orgoglio di appartenenza che ogni cittadino, ogni sindaco custodisce gelosamente nel proprio cuore. Dopo il disastro della finta soppressione delle Provincie si vuole ora mettere mano alla cancellazione dei Comuni che è bene ricordarlo esistono, come Istituzioni, da prima del Parlamento, della Repubblica e dell’Unità d’Italia; Comuni che hanno tenuto insieme e difeso l’Italia nei secoli bui del Medio Evo, che hanno fatto la storia dell’Italia e che ora venti Deputati del PD vogliono cancellare con la scusa di un fantomatico risparmio che anche la Corte dei Conti certifica inesistente, imponendo una soppressione obbligatoria per legge senza minimamente tenere in conto la volontà dei cittadini”.
Sabato 12 marzo è andato in scena “Orgoglio Comune”, manifestazione organizzata dal Comune di Volterra, in provincia di Pisa, per dire no alla fusione dei piccoli comuni. Il primo cittadino dello splendido centro toscano Marco Buselli, ha dichiarato: “Vogliamo come sindaci mantenere l’identità dei nostri territori e far sì che i nostri figli possano continuare a vivere qua. Da Volterra nasce un movimento che è oggettivamente di popolo e chiede dignità e rispetto per una terra, l’Italia, che è fatta essenzialmente di popolo e di Comuni».
In occasione della manifestazione 106 sindaci autoconvocati hanno approvato all’unanimità un documento nel quale si legge: “in una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento dei cittadini dai luoghi decisionali, dall’irruzione dei poteri economico-finanziari nei processi di governo, dal diffondersi di sentimenti diffusi di antipolitica che alimentano i populismi, è necessario un rafforzamento del ruolo dei Comuni, cioè l’esatto contrario del loro smantellamento”. Prosegue il documento: “Purtroppo il modo in cui oggi molta parte della classe politica italiana affronta il tema delle fusioni dei Comuni, proponendone in alcuni casi l’obbligatorietà per legge, in altri promuovendo processi che ne sanciscono l’obbligatorietà di fatto, segna un insostenibile attacco alle autonomie locali e all’esistenza stessa dei piccoli Comuni. Le politiche di valorizzazione e coordinamento di territori e Comunità devono essere perseguite con convinzione e determinazione, attraverso l’uso delle funzioni associate, da esercitare attraverso le Unioni e Convenzioni. Queste ultime, Unioni e Convenzioni, vanno considerate un modello istituzionale stabile – non qualcosa di propedeutico alla fusione – in grado di assicurare servizi efficienti con minori costi». Infine, conclude il documento, “i Sindaci propongono di aprire un processo unitario costituente per la salvaguardia delle autonomie comunali, nel rispetto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini, delle identità territoriali e finalizzato a promuovere iniziative legislative per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli Comuni».
A fianco dei 106 sindaci i rappresentanti delle associazioni dei piccoli Comuni, dei Comuni dimenticati, di quelli virtuosi, dei Comuni montani e delle Isole minori.
Per completare il quadro suggeriamo ai lettori di Felicità Pubblica di prendere in esame il Manifesto in difesa dei piccoli comuni italiani e, perché no, di sostenere la relativa petizione pubblicata su www.change.org.
MANIFESTO IN DIFESA DEI PICCOLI COMUNI ITALIANI
I piccoli comuni rappresentano la grande maggioranza degli 8.000 comuni italiani. Piccoli rispetto al numero di abitanti delle realtà cittadine e metropolitane, ma spesso grandi sia nella loro estensione geografica, sia in riferimento alle risorse economiche, sociali e culturali che sono conservate nei loro confini.
I nostri padri costituenti, con chiara in mente la lunga tradizione civica dei comuni, inclusero tra i principi fondamentali a cui avrebbero dovuto ispirarsi le politiche della Repubblica il riconoscimento del ruolo delle autonomie locali, attraverso l’adeguamento dei principi e dei metodi della legislazione “alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” (art. 5 della Costituzione).
Il Comune è l’elemento centrale di una solida tradizione civica italiana che dal Medioevo giunge fino alla Costituzione repubblicana.
In Italia, più che altrove, i territori locali fondano il loro profilo istituzionale sul Comune, che rappresenta il livello primario della democrazia e della rappresentanza politica.
Specialmente nei piccoli comuni, il municipio e il sindaco sono un punto di riferimento insostituibile per i cittadini e simbolicamente il gonfalone rappresenta un importante riferimento identitario in una società sempre più priva di punti di riferimento collettivi.
In una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento dai cittadini dai luoghi decisionali, dall’irruzione dei poteri economico-finanziari nei processi di governo, dal diffondersi di sentimenti diffusi di antipolitica che alimentano i populismi, è necessario un rafforzamento del ruolo dei comuni, cioè l’esatto contrario del loro smantellamento.
Bisogna adoperarsi per il mantenimento di un presidio democratico dentro le comunità locali, per il rispetto e la valorizzazione delle identità locali e per il rilancio del ruolo dei Consigli Comunali come luogo di partecipazione politica.
Dobbiamo sostenere i piccoli comuni nella loro attività di erogazione di quei servizi fondamentali ai cittadini che, per caratteristiche intrinseche, enti di più grandi dimensioni non riuscirebbero a fornire con altrettanta efficacia e puntualità. Un buon governo locale non riproducibile su dimensioni troppo vaste.
Se i piccoli comuni sono in difficoltà dobbiamo aiutarli a vivere, non a morire.
Purtroppo invece il modo in cui oggi molta parte della classe politica italiana affronta il tema delle fusioni dei comuni, proponendone in alcuni casi l’obbligatorietà per legge, in altri promuovendo processi che ne sanciscono l’obbligatorietà di fatto, segna un insostenibile attacco alle autonomie locali ed all’esistenza stessa dei piccoli comuni.
Un attacco condotto sulla base di un approccio contabile-amministrativo che, non solo non tiene conto di altre dimensioni, ma soprattutto non si fonda su alcuna evidenza oggettiva di dati economici e finanziari. I quali dati mostrano come in realtà l’impatto dei costi dei piccoli comuni nella spesa pubblica nazionale sia del tutto marginale, sia in valore assoluto che percentuale. Altri sono i centri di spesa improduttivi nel nostro Paese.
Assistiamo ad analisi fondate solo sul parametro del numero degli abitanti, che impediscono di comprendere come i processi di fusione, soprattutto nelle zone rurali, possano creare, o aggravare, le criticità connesse all’estensione territoriale dei comuni, la cui eccessiva ampiezza incide negativamente sull’efficienza nell’erogazione dei servizi ai cittadini.
Ci troviamo di fronte a proposte che non tengono conto delle profonde differenze tra le aree del Paese, che conta Regioni come la Lombardia con un numero di comuni pari a 1.500 con una media di 6.500 abitanti o il Piemonte con i suoi 1.200 comuni con una media di 3.600 abitanti, ed altre come la Toscana che invece ne conta 279 con una media di 13.450.
Oppure ad attacchi strumentali condotti utilizzando numeri per creare sensazione, facendo ritenere che gli 8.000 comuni italiani, circa uno ogni 7.500 abitanti, siano un’insostenibile anomalia, quando ad esempio la Francia, Stato tradizionalmente centralizzatore, ne ha 36.000, cioè uno ogni 1.700 abitanti, e non si sogna di mettere in discussione l’esistenza dei piccoli Comuni, pur pretendendo un’organizzazione sovracomunale dei servizi.
Le politiche di razionalizzazione devono infatti riguardare la gestione dei servizi comunali, dai quali derivano i costi e dipende l’efficienza dell’azione amministrativa, e non gli organi di rappresentanza politica.
Sui costi dei quali organi politici si alimentano demagogie, nascondendone la loro reale portata, spesso così esigua da configurarli nella sostanza come un’attività condotta localmente per mero spirito di volontariato.
Le necessarie e improrogabili politiche di razionalizzazione, valorizzazione e coordinamento di territori e comunità debbano essere perseguite, con convinzione e determinazione, utilizzando gli strumenti delle associazioni dei servizi, attraverso convenzioni e soprattutto nelle Unioni dei Comuni.
Le unioni e le convenzioni vanno considerati un modello istituzionale stabile – non qualcosa di propedeutico alla fusione – e devono assicurare servizi efficienti con minori costi. Laddove non si raggiungano questi obiettivi ciò non può essere pretestuosamente imputato al modello associativo in quanto tale, ma semmai alla mancanza di convinzione negli Amministratori o alla inadeguatezza delle relative previsioni normative nazionali e regionali, e non può dunque costituire un alibi per invocare fusioni.
Le fusioni tra comuni, invece, devono essere portate avanti solo dove esista una chiara, inequivocabile ed esplicita volontà, espressa direttamente dalle singole popolazioni interessate, conseguente a situazioni di reale marginalità abitativa e a una riconosciuta perdita di coesione sociale e del senso di comunità.