Qualche giorno fa la redazione di Felicità Pubblica si è occupata del dossier “Taci o ti querelo!”, elaborato da Ossigeno per l’informazione (l’Osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da Federazione Nazionale Stampa Italiana e Ordine dei Giornalisti) sulla base dei dati ufficiali forniti dal Ministero della Giustizia (leggi l’articolo).
In questo caso i numeri non hanno bisogno di commenti: 6.813 procedimenti l’anno di cui 5.902 penali e la restante parte civili. Il Gip ne archivia il 70%, il 20% si risolve in assoluzione o non luogo a procedere; 1 procedimento su 9 porta a una condanna. Nel biennio 2014-2015 sono stati inflitti 103 anni di carcere a un totale di 155 giornalisti. In Italia 30 cronisti vivono sotto scorta, 3.000 hanno denunciato minacce, 30.000 hanno subito intimidazioni.
Ma non possiamo trascurare neppure gli effetti indiretti. “Punire la diffamazione a mezzo stampa sul piano penale, e addirittura con una pena detentiva, produce – come sottolineano le massime istituzioni internazionali – un “chilling effect”, cioè ha un effetto raggelante sui giornalisti, sui giornali, sull’intero mondo dell’informazione”. La conseguenza è la pratica dell’autocensura, soprattutto quando ci si scontra con persone potenti. Le spese legali e le richieste di risarcimenti abnormi fanno il resto.
Naturalmente bisogna stare attenti ad evitare ogni forma di permissività verso la diffamazione; nessuno può impunemente diffondere notizie false o infangare la reputazione di persone innocenti con accuse gratuite e infondate.
Secondo l’Osservatorio, quindi, è necessario riordinare la legislazione seguendo la via tracciata dalla Corte Europea dei Diritti Umani:
- considerare la verità e la buona fede elementi giustificativi sufficienti nei processi per diffamazione a mezzo stampa;
- abolire la pena detentiva e regolamentare l’intera materia in sede di codice civile , con maggiori garanzie per gli accusati.
Il Dossier, curato da Alberto Spampinato, Andrea Di Pietro, Giuseppe F. Mennella, fornisce per la prima volta elementi di conoscenza oggettivi, di assoluto rilievo per il lavoro del legislatore impegnato nella revisione di una materia così delicata.
Di seguito riportiamo il capitolo conclusivo del Dossier; per la consultazione del testo integrale rinviamo alla pagina web.
CONCLUSIONE
In Italia, dunque, i procedimenti giudiziari a carico di giornalisti, blogger e opinionisti accusati di diffamazione a mezzo stampa sono quasi seimila ogni anno, e il loro numero cresce al ritmo di 470 l’anno. Tutto ciò condiziona – anche con condanne a pene detentive che ogni anno assommano a cento anni di carcere – la libertà d’informazione, limitando la facoltà di esercitare in piena libertà il diritto di informare e di essere informati. A subire le conseguenze di queste limitazioni sono in definitiva i cittadini, ai quali è negato, in tutto o in parte, il diritto di conoscere alcune informazioni necessarie per partecipare alla vita pubblica. Ma, certamente, in primo luogo, le vittime di questo condizionamento improprio sono gli operatori dei media, i cronisti, gli editori, gli opinionisti, tutti coloro che hanno il dovere e il ruolo professionale di raccogliere e diffondere tutte le informazioni di rilevante interesse pubblico. Questi operatori non dovrebbero essere indotti a tacere certe notizie per paura o timore di rappresaglie fisiche, giudiziarie o di altro genere, come purtroppo avviene, a causa di leggi e procedure punitive che non si riesce a correggere.
Vari fattori permettono a chi vuole ostacolare la circolazione di informazioni sgradite di farlo con troppa facilità piegando a proprio favore, a fini strumentali, alcuni istituti giuridici come le querele per diffamazione e le citazioni per danni, e alcune procedure giudiziarie nate per fini di giustizia. Fra questi fattori vi è certamente la legislazione vigente, che impone al giornalista querelato l’onere di dimostrare ai giudici di aver esercitato legittimamente il diritto di cronaca e/o di critica. Un onere che comporta notevoli spese legali che, nella maggior parte dei casi, il giornalista querelato o citato deve pagare da sé, senza il sostegno dell’editore. Un altro fattore che moltiplica l‘effetto intimidatorio delle querele è la lunga durata dei processi. Pesa anche il carattere penale di queste contestazioni e pesa, in misura notevole, il rischio del querelato di subire una condanna da scontare in carcere. Perché in Italia un giornalista querelato per diffamazione rischia una pena detentiva che può arrivare a sei anni di reclusione.
I dati ufficiali sulle sentenze di condanna dicono che le pene detentive sono applicate, e non sporadicamente (risultano 155 condanne ogni anno), e che l’abuso della facoltà di promuovere pretestuosamente querele per diffamazione e cause per danni, è sostanzialmente incontrastato. Va detto che 103 anni di pena detentiva comminati ogni dodici mesi sono tanti. Non vale dire che, nella pratica, nessun giornalista (o quasi nessuno) finisce veramente in galera: subire una condanna penale pesa di per sé. E una pena detentiva molto di più, per quanto la sua esecuzione possa restare sospesa in via condizionale: cioè se lo stesso reato non sarà ripetuto e non sopraggiungeranno altre condanne. Chi subisce universalmente riconosciuto subisce un trauma difficile da superare ed è indotto a evitare rischi analoghi, anche a costo di praticare l’auto-censura. Il chilling effect, dunque, agisce anche per chi non sconta la pena in carcere. Sono verità elementari che non sarebbe necessario provare.
Questi problemi sono noti da tempo. La loro gravità è segnalata da tempo dalle organizzazioni che tutelano la libertà di stampa. E tale gravità è riconosciuta dalla politica e dal Parlamento. Perché il Parlamento non ha riesce a dare alcuna risposta?
Finora l’assenza di una raffigurazione oggettiva del problema ha indotto a minimizzare la realtà e a rinviare l’assunzione di ogni e qualsiasi medicina. Ma adesso che finalmente, il Ministero della Giustizia ha acceso la luce sul fenomeno, ora che il governo ha fornito dati oggettivi e inconfutabili, nessuno potrà più nascondersi dietro l’alibi di non sapere ciò che accade. La situazione appare ben più grave di quanto si è creduto fino adesso. È necessario intervenire subito. Non è più il tempo delle titubanze e dei continui rinvii. Non ci si può più nascondere dietro i progetti di legge che promettono di togliere il carcere, ma in cambio introdurrebbero nuovi bagagli.