Da quasi 30 anni ha scelto di condividere la propria vita con gli ultimi, i troppo spesso dimenticati, offrendo il suo aiuto e il suo sostegno nelle zone più povere del mondo. E’ Daniele Moschetti, padre comboniano, nato 56 anni fa a Varese e residente da 6 anni in Sud Sudan, dove è superiore dei Comboniani, dopo aver trascorso 11 anni della sua vita a Korogocho, la baraccopoli di Nairobi.
Da qualche giorno padre Daniele è rientrato in Italia e noi di Felicità Pubblica lo abbiamo incontrato a Montesilvano, in provincia di Pescara, dove il prete comboniano è venuto a far visita ai suoi amici dell’associazione Missione Possibile che da anni svolgono attività di volontariato e promuovono missioni umanitarie in Africa.
Con l’immancabile sorriso e una forza da vendere, padre Daniele ha condiviso con noi i ricordi più duri del suo percorso, accendendo i riflettori in particolare sul Sud Sudan, un Paese troppo spesso dimenticato.
Lei è padre comboniano da quasi 30 anni. Come mai proprio questo percorso?
Io prima ho lavorato, dai 15 fino ai 27 anni, e da lì in poi ho fatto un discernimento di quello che davvero poteva dare un senso alla mia vita, ossia dare un servizio a Dio che ritengo fondamentale aver riscoperto nella mia giovinezza, anche se dopo aver abbandonato per un periodo la Chiesa. Quindi ho scelto di ritrovare un Dio nella vita quotidiana della gente, soprattutto tra i più poveri, gli emarginati. Ho lavorato quasi 11 anni a Nairobi, in Kenya – prima di andare in Sud Sudan negli ultimi 6 anni – e ho vissuto a Korogocho nella baraccopoli dove era prima padre Alex Zanotelli. Quindi ho preso il suo posto in questo luogo davvero duro, difficile. Vivevo in baracca, con la gente e con altri miei fratelli comboniani, in situazioni estreme. A Korogocho, infatti, vivono 120 mila persone in un chilometro e mezzo, “sardinizzate” in baracche fatiscenti per le quali devi anche pagare l’affitto.
Qual è l’esperienza che ricorda con maggiore intensità e commozione?
Mah, sono tantissimi i momenti indimenticabili. Quella di Korogocho la ricordo in maniera molto particolare perché è stata un’esperienza molto dura, molto forte, molto pericolosa anche. Perché è logico che se vivi in una baraccopoli ci sono anche situazioni di violenza e delinquenza. Ci sono poi gruppi di mafiosi che controllano la discarica che avevamo di fronte. Molta gente moriva di cancro o per problemi ai polmoni, alla respirazione, agli occhi. Abbiamo fatto delle lotte con la gente perché ci fosse più equilibrio e più giustizia per la gente stessa, e più lavoro. E questo ti porta anche ad essere al centro di attacchi di persone che non vogliono tali cambiamenti. Ma queste cose mi hanno temprato di più, come uomo innanzitutto, ma anche come cristiano, come prete, come missionario. Ho imparato molto dai poveri, da chi questa situazione la vive ogni giorno sulla propria pelle e la paga molto spesso con la vita. Una spiritualità molto bella, molto forte, di fede, che queste persone mi hanno insegnato in tutti questi anni vissuti insieme.
Mah, sono tantissimi i momenti indimenticabili. Quella di Korogocho la ricordo in maniera molto particolare perché è stata un’esperienza molto dura, molto forte, molto pericolosa anche. Perché è logico che se vivi in una baraccopoli ci sono anche situazioni di violenza e delinquenza. Ci sono poi gruppi di mafiosi che controllano la discarica che avevamo di fronte. Molta gente moriva di cancro o per problemi ai polmoni, alla respirazione, agli occhi. Abbiamo fatto delle lotte con la gente perché ci fosse più equilibrio e più giustizia per la gente stessa, e più lavoro. E questo ti porta anche ad essere al centro di attacchi di persone che non vogliono tali cambiamenti. Ma queste cose mi hanno temprato di più, come uomo innanzitutto, ma anche come cristiano, come prete, come missionario. Ho imparato molto dai poveri, da chi questa situazione la vive ogni giorno sulla propria pelle e la paga molto spesso con la vita. Una spiritualità molto bella, molto forte, di fede, che queste persone mi hanno insegnato in tutti questi anni vissuti insieme.
Da sei anni, invece, vive in Sud Sudan. Altro luogo molto difficile.
Il Sud Sudan viene da una situazione davvero drammatica di guerra negli ultimi 40 anni. Ci sono state due guerre, la prima cominciata nel ‘55 fino al ‘72 tra Nord e Sud. Poi c’è stata una seconda guerra quando si è iniziato a scoprire il petrolio in queste zone, dal ‘73 fino al 2005 ci sono stati due milioni e mezzo di morti, sia per la guerra ma anche per la fame, per le medicine che mancavano, per i servizi sanitari inesistenti. Tre milioni di persone che erano rifugiate nei Paesi limitrofi e anche all’estero, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Europa. Quindi siamo arrivati pian piano, con l’impegno della comunità internazionale e soprattutto delle Chiese cattoliche e protestati, a fare un lavoro di advocacy, cioè iuscire a far emergere questo grande dramma della più lunga guerra in Africa. Si è arrivati poi anche a un accordo con il Nord, con al-Bashīr, che ormai da 32 anni è il presidente, a capo di un governo islamico fondamentalista, e quindi voleva islamizzare il Sud e la parte dell’Africa nera. Si è arrivati quindi a un accordo che ha portato a un referendum il 9 gennaio 2011 dove il popolo del Sud Sudan ha votato al 98% la secessione, quindi ha chiesto di diventare un Paese indipendente rispetto al Nord del Sudan islamico. Sono stati momenti bellissimi di grande speranza, di grandi sogni, di grande futuro soprattutto tra i giovani, considerando che il 70% della popolazione è composta proprio da giovani e bambini. C’è stata per un po’ la speranza di avere una vita normale, di avere finalmente un’istruzione o di ricostruire le strade, solo per fare qualche esempio. Qui, infatti, manca tutto. Non dobbiamo dimenticare che parliamo del Paese più povero al mondo. Questo è andato avanti fino al 15 dicembre del 2013 quando purtroppo si è scatenata una nuova guerra, questa volta civile, tra le due etnie più grandi del Sud Sudan: i Dinka e i Nuer.
Attualmente com’è la situazione?
Da quel 15 dicembre fino ad oggi è stata una escalation di morte. Non si hanno dati ufficiali, ma più o meno possiamo considerare più di 100 mila persone morte in questo conflitto di cui purtroppo si sente molto poco parlare nei nostri media italiani. Se non fosse per papa Francesco che ne parla, infatti, sarebbe difficilissimo sentirne parlare. Purtroppo questo dramma continua, è diventato un dramma fratricida tra tribù dello stesso Paese, ma non solo tra le due principali, dal momento che in totale ce ne sono 64. E’ una lotta che ruota intorno al potere e alla gestione delle risorse e poi tutta la comunità internazionale – dagli americani agli inglesi, passando per i russi e i cinesi – ha grandi interessi in questo Paese perché il Sud Sudan ha dei grossi giacimenti di petrolio e altre risorse. Del resto questo è un Paese vergine perché dall’indipendenza, dal ‘55, è sempre stato in guerra, e ha un territorio molto fertile, ha foreste, ha il Nilo bianco, acqua in abbondanza. Quindi è molto interessante per le multinazionali del Nord del mondo e anche per quelle asiatiche. Poi si estrae ancora oggi, nonostante la guerra e nonostante la distruzione di molti pozzi petroliferi, soprattutto nella zona dei Nuer. E sono proprio i Nuer che hanno pagato il più grande numero di morti proprio per questo motivo, di avere sul proprio territorio, nei propri Stati (2 su 10), il petrolio.
A livello di aiuti, di cosa c’è bisogno?
Il Papa due settimane fa ha lanciato un altro appello molto forte perché c’è una grande fame, 5 milioni di persone sono a rischio in questo momento, e moltissimi stanno già morendo. Un allarme riconosciuto questa volta anche dallo Stato che non aveva mai riconosciuto finora gli allarmi lanciati dalle Nazioni Unite e da altri Organizzazioni non governative e umanitarie. Sono problemi legati ovviamente alla guerra perché gli investimenti non sono andati su infrastrutture o sul dare istruzione ai giovani, ma il governo ha speso milioni e milioni in armi, indebitando il Paese e ipotecando il petrolio, anche quello futuro. Ha dato blocchi completi di possibili sfruttamenti di petrolio. Quindi si stanno perdendo le ricchezze nazionali in questo modo. Oltre a questo c’è una situazione economica allo sfacelo completo, abbiamo raggiunto un’inflazione dell’850%, in Italia abbiamo l’1% tanto per capire. Poi non si produce nulla in Sud Sudan, viene tutto dai Paesi limitrofi, dall’Uganda, dal Kenya, dal Sudan, dall’Etiopia. Quindi c’è mancanza di cibo, di tutte le cose basilari, ed è tutto molto costoso, per cui la gente non riesce più a far fronte alle necessità quotidiane.
Qual è, secondo lei, il fattore più importante per il raggiungimento della felicità pubblica?
Credo il fatto di riuscire a capire che non posso essere felice da solo. Questo è fondamentale. La mia famiglia certamente, ma non basta. E’ necessaria una comunità che si impegni per il bene, per sentire che anche gli altri stiano bene. Sto meglio io se stanno meglio anche gli altri. Se io sto bene ma gli altri stanno male sarò prima o poi inevitabilmente toccato. Quindi tutti questi muri che cerchiamo di fare, Trump o anche Obama prima, o che sono stati fatti negli ultimi anni anche in Europa, pensiamo all’Ungheria, all’Austria. Queste situazioni assurde non ci porteranno mai alla felicità, ma ci porteranno sempre di più a una tristezza interiore personale. Perché il valore non si basa sulla materialità, sui soldi e sulle infrastrutture o su un effimero svago, ma su quelli che sono i valori personali interiori, che poi vengono condivisi con gli altri. Nel momento in cui c’è questa sintonia e quest’attenzione all’altro, allora sto meglio anche io, ma nel momento in cui mi chiudo, allora arriva l’egoismo, l’individualismo e tutti gli ismo negativi.