Sempre più difficile tenere alta l’attenzione sulla Festa del Lavoro. Il Primo Maggio non è più il grande rito laico, collettivo, che abbiamo conosciuto nel passato. È solo una festività tra le altre, che quest’anno prolunga il weekend di fine aprile.
D’altra parte, se non c’è attenzione al lavoro perché ce ne dovrebbe essere per la giornata che lo celebra. Negli ultimi anni il lavoro sembra essersi trasformato da fatto collettivo a questione individuale. Nell’epoca della frammentazione e della paura, ciascuno prova a fare per sé, quando può negozia la propria posizione, più spesso si arrangia e si adatta alla “legge del mercato”.
Allora dobbiamo essere grati a chi, caparbiamente, continua a festeggiare il Primo Maggio chiamando a raccolta i lavoratori. Oggi le grandi organizzazioni sindacali ricordano il 70esimo anniversario dell’eccidio di Portella della Ginestra. Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo si ritrovano a Piana degli Albanesi per una giornata che ha come tema “Lavoro: le nostre radici, il nostro futuro”.
Purtroppo non basta. Troppo poche le orecchie che daranno ascolto a questo messaggio. Eppure c’è un enorme disagio sociale nel Paese che talvolta prende la strada della disperazione individuale, talaltra scade nel ribellismo ma quasi mai riesce a diventare progetto comune. In verità ben pochi perseguono questa strada, certamente difficile ma assolutamente necessaria.
Allora, in occasione del Primo Maggio, ci avventuriamo nel suggerire qualche brevissima riflessione.
In primo luogo, quando parliamo di lavoro, dovremmo liberarci dal mito del “successo” – stanca ripetizione di un luogo comune degli anni 80 –, dalla neoretorica dell’eccellenza o delle startup innovative. Possiamo congratularci con chi ha successo, con chi eccelle o con chi promuove imprese all’avanguardia, ma il mondo del lavoro è fatto soprattutto di tante persone che prestano la propria opera in ruoli diversi. I primi sono poche decine di migliaia, le seconde milioni. E, di contro, non possiamo neppure parlare solo della povertà assoluta. So di risultare sgradevole, ma questo modo di affrontare il tema della povertà rischia di diventare un alibi per non fare i conti davvero con le problematiche del mondo del lavoro.
In secondo luogo dovremmo iniziare a restringere la forbice tra le retribuzioni più alte e quelle più basse. Non è un tema da veterocomunista ma una banale esigenza di equilibrio sociale. Il potere d’acquisto di salari e stipendi è drammaticamente sceso mentre retribuzioni e liquidazioni dei top manager sono salite in modo del tutto sproporzionato, peraltro senza alcuna correlazione con i risultati aziendali.
In terzo luogo non possiamo dimenticare gli squilibri territoriali. Basta leggere i dati riportati nel recentissimo report dell’Osservatorio Statistico dei consulenti del lavoro. Nel 2016 lo stipendio medio mensile di un lavoratore a Bolzano è stato di 1.476 euro contro 1.070 di Ragusa. Il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro è stato del 5,3% a Bolzano e del 48,7% a Vibo Valentia. Infine l’indice complessivo di efficienza e innovazione del mercato del lavoro ha visto l’affermazione di Bologna su Milano, Lecco, Monza e Brianza e Trieste; del Centrosud neppure l’ombra. Forse qualcuno non si è ancora accorto che l’Italia è letteralmente divisa in due e il gap tende costantemente a crescere.
Buon Primo Maggio dalla redazione di Felicità Pubblica.