Depositato al ministero dell’Ambiente il “Primo rapporto sul capitale naturale in Italia“, resoconto molto prezioso che prova a valutare le ripercussioni economiche, ambientali e in termini di salute date dallo sfruttamento della natura nel nostro Paese. Ne viene fuori un quadro dagli aspetti contrastanti: dei diversi 73 ecosistemi presenti in tutto lo Stivale, 19 sono a rischio di estinzione, 18 mediamente minacciati, i restanti non incorrono in particolari problemi di sopravvivenza. Dal momento che, come sappiamo, l’Italia è uno dei Paesi con al suo interno gli ecosistemi più ricchi e vari, questo dato va interpretato senz’altro come molto negativo.
D’altro canto esistono anche elementi positivi «quali, ad esempio l’incremento delle aree naturali protette, con però una tendenza al peggioramento nelle principali componenti del capitale naturale italiano», leggiamo nel rapporto.
Uno dei problemi maggiori evidenziati dal primo rapporto sul capitale naturale in Italia è legato al consumo del suolo. Ben 35 ettari al giorno scompaiono, colpa del dilagare dell’urbanizzazione; basti pensare che il consumo del suolo dal 1990 al 2013 è cresciuto dai 290 a 353 metri quadrati per ogni cittadino italiano. Parliamo di un’enormità. Il degrado causato dalla copertura degli ecosistemi rurali con asfalto e calcestruzzo, dice il rapporto, «impedisce al suolo di trattenere le precipitazioni e accresce i rischi di inondazioni con effetti indiretti sul microclima».
La situazione non migliora se dal suolo ci spostiamo a considerare l’ecosistema marino. Il rapporto valuta con una litote la situazione delle nostre acque: “non buone”, mentre i dati a corredo spiegano meglio. Bene la situazione intorno alla Sardegna e nella zona costiera dell’Appennino centrale, mentre il resto delle aree annaspa con danni sulla fauna che naturalmente incidono sull’economia. I mari sono stressati e nel periodo che va dal 2007 al 2014 si parla di «sovrasfruttamento della pesca». Se le politiche promosse dalla Commissione europea hanno di fatto permesso di non annegare completamente nella melma riportando lentamente la situazione verso un approccio più vicino alla sostenibilità biologica, il danno procurato in tanti anni rimane e le ripercussioni economiche per una Penisola come la nostra sono notevoli.
Spiace dire che un altro problema riguarda le specie aliene (o esotiche) che in totale sono circa 2.700 e di queste 1.500 sono animali. Invece circa 1.100 sono specie vegetali, funghi e batteri. Alcune di esse hanno un’enorme capacità di diffusione e possono essere dannose per la salute umana, per l’ambiente stesso e naturalmente per le attività economiche e in particolare per tutti coloro che lavorano nel settore agricolo. Un errore pensare che questo fenomeno sia nuovo. A cominciare dal Secondo dopoguerra per arrivare al decennio 1990-1999, le specie nuove aliene sono state 27 per ogni nuova stagione. Facile intuire in che modo esse siano arrivate fin qui: gli scambi commerciali in primis e poi il riscaldamento del Mediterraneo che ha portato specie tropicali nei nostri mari. Per quanto riguarda il resto, tra vegetali e animali, esiste un rischio forte di estinzione. Su 1.400 dei primi, 248 risultano minacciati e 32 con ogni probabilità già estinti. Per quanto riguarda gli animali, su 672 specie di vertebrati il 28% è sottoposto a un serio rischio di estinzione. Le cause vanno attribuite alla perdita graduale dell’habitat, dall’inquinamento e, anche se in maniera meno incisiva, anche dalla caccia.
Finalmente una buona notizia: le nostre aree protette e le riserve naturali, stando a questo primo rapporto, superano per ampiezza quelle europee e mondiali.
Infatti, se è vero che crescono calcestruzzo e asfalto, cresce anche la superficie forestale che copre quasi 12 milioni di ettari con una tendenza che si evidenzia in positivo, dunque destinata a crescere. Più nel dettaglio, si osserva che sono aumentati i boschi a scapito dei terreni dedicati all’agricoltura e al pascolo. Sono diminuiti appunto i terreni seminativi e gli agrumeti ma sono aumentati gli spazi per la viticoltura, gli uliveti e le risaie.
Altra buona notizia di cui il primo rapporto ci informa è il miglioramento dell’aria, per quanto questo possa sembrare strano. In realtà però è tutto molto spiegabile: di fatto gli inquinanti sono in forte decrescita e gli indicatori della qualità dell’aria lo confermano. Resta grave la situazione in Pianura Padana e nelle aree metropolitane, mentre nei centri minori piccoli miglioramenti si sono imposti.
Andando a contare i piani di intervento ambientale varati dal nostro Paese, scopriamo che se ne sono fatti ben 61 nel tempo. I risultati di tali strategie hanno risolto poco e nulla, pertanto serve muoversi con un approccio nuovo e arrivare a una razionalizzazione che sia in grado di contrastare seriamente i problemi succitati. Esiste uno stridente divario tra l’enormità delle imposte ambientali – 55.722 milioni di euro – e l’impiego effettivo del denaro dei contribuenti in misure ambientali, solo 578 milioni. Paghiamo imposte, soprattutto accise, sui prodotti energetici e sui mezzi di trasporto. Va da sé che un maggior impegno da parte del Governo su interventi ambientali degni di tale nome sarebbero non solo auspicabili, ma, data la gravità della depressione ambientale che stiamo vivendo, assolutamente necessari.