La settimana scorsa abbiamo iniziato ad analizzare il Rapporto Svimez 2016 (leggi l’articolo), forti di una convinzione: l’attenzione verso le problematiche del Mezzogiorno è ancora largamente inadeguata rispetto alla gravità del divario dal Centro Nord. Naturalmente la questione non può essere posta in termini “rivendicazionisti” rispetto al Governo nazionale, ma riguarda l’intera comunità nazionale, e una responsabilità primaria è in capo proprio alle classi dirigenti delle Regioni meridionali. Di certo il primo dovere è quello della conoscenza e, in questo ambito, il Rapporto Svimez è prezioso per comprendere meglio l’evoluzione della situazione.
In questa seconda parte proponiamo ai lettori di Felicità Pubblica analisi e considerazioni del Centro di ricerca dedicate all’andamento demografico, al mercato del lavoro, alla diffusione della povertà e al sistema dell’istruzione.
POPOLAZIONE, MERCATO DEL LAVORO, POVERTÀ, SCUOLA
Continua il calo demografico, nel Mezzogiorno giù la natalità – Continua il profondo cambiamento della geografia demografica dell’Italia. Nel 2015 in Italia sono nati poco meno di 486 mila bambini, il 3,3% in meno rispetto all’anno precedente (-13 mila unità nel Centro Nord e -4 mila nel Mezzogiorno). È un nuovo minimo storico, dopo quello del 2014 con 503 mila nati. Prosegue il calo demografico nel Mezzogiorno: nel 2015 la popolazione meridionale è diminuita di circa 62 mila unità, dopo la perdita di 21 mila unità nel 2014 e 31 mila nel 2013 per effetto congiunto delle migrazioni verso il Centro-Nord o l’estero e per il calo delle nascite. Cala anche il tasso di incremento naturale, che si attesta nel 2015 a -2,0%, rispetto alla media nazionale di 2,7%. Il trend demografico al ribasso è abbastanza omogeneo in tutta la Penisola: il tasso di fecondità totale (TFT) italiano nel 2014 è risultato pari a 1,37, figli per donna, in calo rispetto all’1,39 del 2013. Nel Mezzogiorno il numero medio di figli per donna è di 1,30. Le donne in Italia diventano madri sempre più tardi, in media 31,5 anni a livello nazionale. Continua a diminuire il numero dei matrimoni (190 mila nel 2015, 80 mila in meno rispetto al 2002); in aumento i riti civili che rappresentano il 43,1% del totale, oltre 14 punti percentuali in più rispetto al 2002. Il rito civile è scelto dal 54,1% di coppie che decidono di sposarsi nel Centro-Nord, solo dal 27,1% nel Centro-Sud. L’età del matrimonio cresce in maniera quasi omogenea nella Penisola: 33,2 anni per gli uomini, 30,3 anni per le donne al Sud, 35,2 e 32,2 al Nord.
Emigrazione e immigrazione, il Sud sempre più a rischio desertificazione – Negli ultimi venti anni il Sud ha perso 1 milione e 113 mila unità, la maggior parte dei quali concentrati nelle fasce d’età produttiva tra 25-29 anni e 30-34 anni, (23 mila unità). A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. Anche nel 2015 continua l’esodo verso il Centro Nord: nel 2014 si sono trasferiti dal Mezzogiorno in una regione centrosettentrionale circa 104 mila abitanti, mentre sono circa 63 mila quelli che si trasferiscono dal Centro-Nord al Mezzogiorno, in gran parte frutto dei rientri di chi ha concluso il proprio ciclo lavorativo. Le regioni con il saldo migratorio più alto sono la Campania (32 mila unità), la Sicilia (23 mila unità), la Puglia (19 mila unità) e la Calabria (13 mila unità).
A lasciare il Sud sono ancora i soggetti più qualificati e dinamici: circa il 20%, ovvero 24 mila unità, hanno una laurea. Le quote più alte di laureati sul totale degli emigrati si registra in Puglia e Abruzzo, rispettivamente il 32,5% e il 32,1%. Nelle altre regioni del Mezzogiorno la quota dei laureati che si trasferisce al Centro-Nord è comunque sempre superiore al 25%. (…)
Occupazione, i primi segnali positivi segnano un’inversione di tendenza nel Mezzogiorno – La dinamica positiva dell’occupazione del 2015 è senz’altro il maggiore punto di forza della ripartenza dell’economia meridionale, pur in un quadro di persistente fragilità ed emergenza sociale. Nella media del 2015, l’occupazione italiana cresce di 186 mila unità, pari allo 0,8%. Nel 2014 la crescita era stata dello 0,4%. Le unità in aumento nel Mezzogiorno sono 94 mila, 92 mila al Centro Nord. Nonostante la crescita più contenuta il Centro-Nord recupera quasi completamente i livelli occupazionali pre-crisi, mentre il Sud rimane ancora ben 7 punti percentuali indietro rispetto al 2008 (- 482 mila unità). Cresce il divario anche con l’Eurozona, dove il tasso di occupazione aumenta di 8 decimi di punto attestandosi al 69,0%; le regioni del Centro-Nord sono vicine alla media europea (68,0%), mentre il Mezzogiorno è lontano di circa 24 punti (46,1%, era al 45,6% nel 2014). (…)
Jobs Act e decontribuzione stimolano il mercato del lavoro ma non incidono sulla struttura – La crescita dell’occupazione nel Mezzogiorno interessa tutti e tre i principali settori; in particolar modo l’incremento più significativo al Sud si registra in agricoltura (+5,5%, rispetto al +2,4% del paese) e nei servizi; si estende anche all’industria in senso stretto, mentre ancora in flessione sono le costruzioni. L’occupazione terziaria aumenta in tutte le regioni con l’eccezione di Basilicata, Puglia e Molise.
Il mercato risponde alle misure incentivanti sull’occupazione, in particolare alla combinazione di Jobs Act e decontribuzione sulle assunzioni a tutele crescenti di cui ha giovato il Sud. Queste misure non riescono però a incidere sulle problematiche strutturali del Mezzogiorno, che continua a rimanere legato a schemi già sperimentati: la prima forma di assunzione rimane l’occupazione a termine: l’occupazione a tempo determinato cresce nel 2015 del 3,3%, a tempo indeterminato si arresta allo 0,6%. Nel Mezzogiorno l’aumento dei dipendenti a tempo indeterminato è in termini relativi leggermente più accentuato (+37 mila occupati, pari all’1%) grazie alla decontribuzione sulle assunzioni a tutele crescenti. La crescita degli occupati a livello nazionale è costituita in gran parte da lavoratori dipendenti (+208 mila unità pari al +1,2%). La popolazione inattiva tra 15 e 64 anni continua a diminuire (–84 mila unità, pari al –0,6%). Nonostante i segnali positivi che invertono la tendenza del mercato del lavoro, i livelli occupazionali rimangono ancora molto distanti dai livelli pre-crisi in quasi tutte le regioni: in Calabria e Molise (-10%), in Sicilia (–8,5%), in Puglia (–8,4%), in Abruzzo (–6,3%), in Sardegna (–6,1%) e in Campania (–5,7%); l’unica regione ad avvicinarsi ai valori del 2008 è la Basilicata (–2,7%). L’andamento del 2015 è particolarmente positivo per questa regione (+3,5%), una crescita significativa avviene anche in Sardegna (+3,1%), Puglia (+2,4%) e Sicilia (+2,3%) mentre è più contenuta in Molise (+1,4), Campania (+1%) ed Abruzzo (+0,6%).
Cresce il rischio di povertà nel Mezzogiorno, aumenta il divario con il resto del paese – In Italia, dal 2008 al 2015, le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta sono aumentate da 2,1 a 4,6 milioni. Nel 2015 i poveri assoluti nel Mezzogiorno sono aumentati di 218 mila unità, superando i 2 milioni, 10 meridionali su 100 risultano in condizione di povertà assoluta contro poco più di 6 nel Centro Nord. La recessione ha peggiorato notevolmente gli squilibri del mercato del lavoro all’interno. L’aumento della povertà assoluta nel Mezzogiorno nel 2015 si è verificato soprattutto nei Comuni di più grande dimensione, dove nel 2014 il 18,5% dei residenti è a rischio di povertà. Nel 2014 il rischio di povertà è aumentato in quattro delle otto regioni meridionali, peggiorando in maniera evidente in Campania, Abruzzo e Sardegna; migliorano la Puglia e la Basilicata. Differenze evidenti esistono anche all’interno del Mezzogiorno: in Sicilia e Campania i cittadini a rischio povertà superano il 39%, mentre in Abruzzo sono di poco superiori al 20%. Crescono anche le disparità interne alle aree geografiche: fra il 2007 e il 2014 è aumentata in particolare la distanza fra i redditi del 10% più ricco della popolazione e quelli del 10% più povero. Maggiormente a rischio nel Mezzogiorno sono le famiglie con un solo genitore con minori a carico (52%) e le coppie con figli minori (41%). (…)
Le fasce più a rischio sono quelle giovani, emerge la figura del working poor – I redditi delle famiglie composte da giovani sono di gran lunga più bassi di quelli delle famiglie composte da adulti: tra il 2007 e il 2014 il rischio di povertà per le famiglie con capofamiglia tra i 20 e i 39 anni aumenta dal 28,9% al 32,7%, soprattutto nel Mezzogiorno (+ 12 punti). I nuovi poveri (working poor) sono spesso lavoratori diplomati o laureati che con la crisi hanno subìto un generale cambiamento della loro condizione economica (perdita di posti di lavoro, entrata in Cassa integrazione, perdita del potere di acquisto anche in ragione delle forme di lavoro precario). Tra il 2007 e il 2014 la percentuale di working poor aumenta, arrivando al 7% nel Centro Nord, e oltre il 24% nel Sud.
Le soluzioni, un nodo difficile – Le iniziative previste dal Governo per il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale nel futuro a breve termine sono attualmente focalizzate attorno alla previsione di una misura di contrasto alla povertà, il Sostegno di Inclusione Attiva (SIA) che estende, modificandone alcuni aspetti, un precedente intervento di carattere provvisorio e sperimentale, limitato a soli 12 Comuni italiani. (…)
Il gap dell’occupazione giovanile si allarga: 3,3 milioni perdono il lavoro dal 2000 – Il Sud si colloca in fondo ad ogni classifica europea rispetto al tema della condizione giovanile nel mercato del lavoro. Tra il 2000 ed il 2015 l’occupazione della fascia di popolazione tra i 15 e i 34 anni si è ridotta di 3,3 milioni di unità rispetto alla flessione della popolazione di età corrispondente di circa 2,9 milioni; il divario in termini di tasso di occupazione nei confronti dell’Unione Europea si è notevolmente ampliato (dai 4 punti del 2000 agli oltre 16 punti percentuali del 2015). La flessione interessa entrambe le circoscrizioni territoriali del Paese: più accentuata nel Centro Nord nel periodo pre-crisi (–2,5% all’anno tra il 2000 ed il 2007, –1,7% nel Mezzogiorno) e viceversa più pronunciata al Sud dal 2008 al 2015 (–4,5% all’anno a fronte del –3,9% del Centro Nord). Due elementi, tuttavia, contribuiscono a rendere più critica la situazione del mercato del lavoro al Sud. Mentre il Centro- Nord parte da livelli di occupazione giovanile molto alti, superiori alla media europea, per il Mezzogiorno la situazione dell’occupazione giovanile, già critica negli anni pre-crisi, si deteriora ulteriormente negli anni Duemila fino a sfiorare il 27,4% nel 2015. Il Mezzogiorno manifesta una crescita contenuta dell’occupazione nella fascia di età oltre i 35 anni (+0,9% in media all’anno tra il 2000 ed il 2015 a fronte del +2,1% del Centro-Nord): l’occupazione complessiva flette nel quindicennio nel Mezzogiorno (–308 mila unità), mentre cresce sensibilmente nel Centro Nord (+534 mila unità).
Laureati e diplomati stentano a trovare lavoro, crescono i Neet – Nel 2015 i giovani italiani Neet hanno raggiunto i 3 milioni 421 mila, con un aumento rispetto al 2008 di circa 621 mila unità (+22,2%). Di questi, quasi 2 milioni sono donne (56%) e quasi 1,9 milioni sono meridionali. Oltre un quarto dei diplomati ed oltre un quinto dei laureati tra i 15 e i 34 anni non lavora e nel contempo ha abbandonato il sistema formativo. Nel 2015 risultano occupati nel Sud il 40,9% dei diplomati ed il 57,6% dei laureati a tre anni dal conseguimento del titolo di studio a fronte rispettivamente del 49% e 68,8% del Centro-Nord; prima della crisi erano circa il 60% circa dei diplomati ed il 70% dei laureati. Un gap incolmabile rispetto alla media UE con il 70% dei diplomati e l’81% dei laureati. (…)
L’occupazione femminile cresce soprattutto per le lavoratrici straniere – L’occupazione femminile in Europa negli anni duemila cresce di più di quella maschile: +1% in media all’anno nel periodo 2001-2015, +0,3% tra gli uomini. L’occupazione femminile sale più velocemente nel Centro-Nord (+0,9% all’anno, +0,5% nel Mezzogiorno) mentre negli anni della crisi, flette nelle regioni meridionali dello 0,2% all’anno. Il divario con la media europea, già elevatissimo all’inizio del periodo (circa 26 punti percentuali), si è ulteriormente ampliato portandosi sopra i 30 punti. Il tasso di occupazione femminile, partito da 31% del 2000 e cresciuto di circa 3 punti nella fase pre-crisi per poi restare stazionario, si attesta nel 2015 al 33,4%. L’incremento del lavoro ha riguardato soprattutto le lavoratrici straniere nel settore dei servizi alla persona: sono 370 mila, 110 mila quelle italiane, l’11% delle occupate.
Continua il declassamento delle competenze professionali, giù gli occupati in professioni cognitive e manageriali – Il fenomeno di downgrading colpisce soprattutto le fasce giovani a causa di fattori strutturali – come l’elevata frammentazione del sistema produttivo, il basso livello di istruzione degli imprenditori e la scarsa propensione alla ricerca e all’innovazione. (…) In Italia le professioni cognitive altamente qualificate hanno perso tra il 2008 ed il 2015 oltre 1,1 milione di unità (12,8%), mentre nell’Europa a 28 sono aumentate del 4,6%; il calo nel Mezzogiorno è stato assai più accentuato (– 18,7%) rispetto al Centro Nord (–10,8%): il 37,1% tra le donne e il 35% tra gli uomini. Rimangono aperte le questioni ataviche sull’occupazione femminile: il 33% delle madri abbandona il lavoro perché non riesce a conciliare la vita familiare, in particolare perché non ha parenti di supporto, per un mancato accoglimento al nido e per gli elevati costi di assistenza del neonato.
I giovani non danno fiducia all’Università, calano le immatricolazioni – L’Italia si mantiene tra i paesi europei che investe meno sui suoi studenti, circa 10.000 dollari rispetto ai 13.000 della Spagna, 15.000 della Francia, 17.000 della Germania. Dal 2001 al 2015 le risorse complessivamente erogate per il sistema universitario si sono ridotte di circa il 17%. Dal 2008 al 2015 il FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) è diminuito complessivamente di circa il 19%, in particolare del 24% al Mezzogiorno, 21% al Centro e 14% al Nord. L’Università italiana continua a perdere appeal nei confronti degli studenti: in Italia si immatricolano solo il 42% degli studenti che hanno terminato la scuola secondaria, a fronte di un 70% in Spagna, 60% in Germania e Regno Unito. Tra il 2000 e il 2015, il numero degli immatricolati in Italia è passato da 273.444 a 251.509 unità con un calo di circa l’8%. Il tasso di proseguimento scuola-Università calcolato come il rapporto tra il numero dei diplomati e il numero di immatricolati per ripartizione geografica di residenza scende vertiginosamente in Italia: dal 72-73% degli anni 2003 e 2004 (riforma del 3 + 2) al 55% del 2014 e 2015. Tale diminuzione non ha interessato il Nord-Italia (+2,6%), ma solo il Centro (–8,4%) e soprattutto, drammaticamente il Sud (–16,87%). (…)