Nel 2015 i tribunali italiani hanno emesso 12.959 misure cautelari personali. La custodia cautelare in carcere è stata disposta in 6.016 casi (il 46%); seguono gli arresti domiciliari con 3.704 casi (29%) e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in 1.430 casi (11%). E’ quanto emerge dalla relazione sulle misure cautelari del ministero della Giustizia. I penalisti però bocciano il report, basato “su dati solo dal 35% dei tribunali”.
Riportiamo di seguito una nota di commento al report redatta nei giorni scorsi dall’Unione delle Camere Penali Italiane a firma del segretario e del presidente dell’Unione, rispettivamente Francesco Petrelli e Beniamino Migliucci che evidenziano: “Sebbene la Relazione presentata dal Governo cerchi di rassicurarci rappresentando un miglioramento della situazione, riteniamo che nonostante i reiterati interventi legislativi che si sono susseguiti nel precedente triennio, il fenomeno relativo all’utilizzo distorto delle misure cautelari personali non si sia affatto attenuato, confermando l’idea che non sia in alcun modo maturata quella “cultura della libertà” che dovrebbe accompagnare ogni riforma in questa materia”.
COMMENTO ALLA RELAZIONE SULLE MISURE CAUTELARI PERSONALI CONSEGNATA AL PARLAMENTO AI SENSI DELL’ART. 15 DELLA LEGGE N. 47/2015
La Relazione ministeriale presentata al Parlamento ai sensi dell’art. 15 della legge di riforma della custodia cautelare, entrata in vigore l’8 maggio del 20151, costituisce il primo documento ufficiale che affronti le questioni inerenti all’utilizzo delle misure cautelari personali, alla eventuale modifica della loro applicazione in rapporto alla introduzione delle nuove norme, ed ai rapporti delle stesse con gli esiti del processo.
L’obbligo di presentazione della relazione annuale, fortemente voluta dall’allora Viceministro Enrico Costa, avrebbe dovuto rappresentare, dunque, una occasione davvero straordinaria per portare ad emersione i dati reali circa l’utilizzo dello strumento della custodia cautelare nel nostro Paese e degli abusi, in particolare, della custodia cautelare in carcere, la cui troppo estesa e disinvolta applicazione determina, da un lato un grave sovraffollamento carcerario, dall’altro una evidente sperequazione fra numero di detenuti in esecuzione di pena e numero di detenuti in attesa di giudizio e quale, ulteriore effetto, un rilevante numero di ingiuste detenzioni con consistenti esborsi milionari dello Stato per le conseguenti riparazioni2.
Non si trattava, pertanto, solo di monitorare gli effetti della riforma (o meglio, delle diverse riforme che si sono susseguite in questo ultimo triennio) in materia cautelare, ma anche di portare finalmente a conoscenza degli operatori le cifre attuali e reali del fenomeno in esame, capaci di rappresentare in termini quali-quantitativi incontestabili i modi con i quali, nell’ambito del processo penale, i giudici impongono limitazioni alla libertà personale, nonché gli esiti di tali imposizioni.
Tuttavia, sia sotto il primo che sotto il secondo profilo, i risultati sono stati a dir poco deludenti, mentre, sotto il profilo metodologico, si è avuto modo di rilevare alcuni difetti nella raccolta, elaborazione ed analisi dei dati francamente sconcertanti e tali da privare l’intera Relazione di ogni utilità rispetto le sue finalità di ricognizione e di monitoraggio del fenomeno.
Le carenze della Relazione riguardano, in particolare, la assoluta modestia del dato di rilevazione costituito solo dal 35% dei Tribunali (così parziale da non consentire – anche per via della natura del tutto casuale della “selezione” del campione – di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà. Deve, inoltre, rilevarsi come non sia stata operata alcuna distinzione fra gli effetti riferibili, nel tempo, alla riforma del 2013 (Legge 9 agosto 2013 n. 94) con la quale è stato innalzato a 5 anni il limite di applicabilità della misura custodiale in carcere, ovvero alla riforma del 2014 (Legge 11 agosto 2014 n. 117), che ha introdotto l’ulteriore limite prognostico di 3 anni di pena effettiva da scontare, ed infine alla più ampia riforma del 2015, con la quale si è intervenuti anche sulla fase del controllo delle misure in sede di Tribunale per il Riesame (sui cui primi eventuali effetti la Relazione tace del tutto).
Stante la molteplicità e diversità degli interventi legislativi, non operare una distinzione fra cause ed effetti delle singole modifiche normative significa sovrapporre impropriamente i diversi fattori eziologici (le riforme del 2013, 2014 e 2015) che possono aver agito sulla modificazione del fenomeno, e con ciò sottrarre agli operatori, agli studiosi, ed al legislatore stesso, un prezioso strumento di conoscenza e di verifica della efficacia reale dei singoli interventi, anche ai fini di future correzioni ed integrazioni.
Non avendo a disposizione i dati omologhi della applicazione delle medesime misure relativi agli anni precedenti, non potremo in alcun modo sapere se le eventuali flessioni siano il risultato di una linea di sviluppo già iniziata negli anni precedenti, ovvero se, rispetto al 2013 e 2014, il numero delle custodie cautelari in carcere sia effettivamente diminuito nel 2015 o se lo stesso sia, al contrario, aumentato ed in quale proporzione.
Si deve inoltre rilevare come il giudizio positivo in ordine alla effettiva attuazione della riforma della custodia cautelare del 2015, con specifico riferimento al controverso attributo della “attualità” del pericolo della recidiva, venga sostanzialmente agganciato alla rilevazione di un dato meramente cronologico che nulla ha a che fare con la sussistenza o meno della richiesta qualità.
Affermare che “la quasi totalità delle misure emesse nel 2015 è stata adottata nell’ambito di procedimenti penali iscritti nello stesso anno” e che tale circostanza dimostrerebbe “che al requisito dell’attualità delle esigenze cautelari, che oggi deve connotare tutto il catalogo dei pericula libertatis, è stato dato adeguato rilievo da parte dell’autorità giudiziaria”, significa travisare del tutto il significato del requisito della attualità di quella esigenza, in quanto la misura può essere emessa anche nella immediatezza della commissione del reato e non per questo essere giustificata dalla attualità del pericolo di reiterazione. Si confonde, cioè, l’attualità della esigenza, con l’attualità della misura.
Inoltre, il fatto che il procedimento sia stato iscritto nell’anno, non vuol dire che il reato sia stato commesso nell’anno di riferimento, ma semplicemente che è stata avviata un’attività di indagine con riferimento ad una condotta delittuosa che potrebbe essersi consumata anche molti anni prima. Il dato di riferimento dovrebbe, dunque, essere non il momento di iscrizione del procedimento, ma il momento di consumazione del reato.
Sotto questo profilo non può che smentirsi la valutazione positiva che caratterizza le Conclusioni della Relazione laddove si afferma che la rilevazione avrebbe fatto “emergere dati confortanti per quanto attiene al rispetto del canone di attualità delle esigenze cautelari” (Rel., p. 13), in quanto un simile eventuale dato positivo potrebbe emergere solo attraverso l’accertamento, in un ambito esteso all’intero territorio nazionale, di una consistente ed effettiva flessione nella applicazione delle misure personali, stabilizzata nel tempo, e successiva alla data dell’8 maggio 2015, ovvero attraverso un altrettanto esteso accertamento circa l’aumento degli annullamenti operati, per tale specifica ragione, da parte dei Tribunali per il riesame.
Ma di simili positivi e confortanti rilevamenti non vi è traccia alcuna nella Relazione, in quanto è dichiaratamente mancata ogni statistica in ordine alla efficacia dei “nuovi” controlli da parte del Tribunale del Riesame, la cui rilevazione è stata espressamente rinviata a tempi migliori. Si tratta di una carenza vistosissima in quanto il procedimento incidentale cautelare, se correttamente monitorato, anche nei suoi esiti di legittimità, consente di avere effettiva conoscenza dell’uso e dell’abuso della custodia cautelare e della effettività ed incidenza dello strumento del riesame.
Ma anche a voler prescindere dal suddetto specifico ed essenziale elemento interpretativo, non può in genere non rilevarsi che, essendo venuto a mancare ogni riferimento alle misure cautelari personali applicate (o meglio, emesse) prima della data in vigore della relativa riforma (in data 8.5.2015), non è possibile istituire alcuna relazione fra le complessive oscillazioni nell’applicazione delle misure cautelari personali e la introduzione, all’interno della norma processuale, della suddetta specificazione in senso restrittivo e garantista.
Tuttavia, anche a voler immaginare una (improbabile) aderenza dei dati oggetto della Relazione alla reale condizione applicativa delle misure restrittive, occorre rilevare come, a fronte della applicazione di altrettante misure cautelari restrittive (arresti domiciliari in 67 casi e custodia in carcere in ben 83 casi), siano seguite 198 assoluzioni ovvero sentenze di proscioglimento o altro (definitive e non definitive). Il che significa che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 potenziali “ingiuste detenzioni” presso il solo Tribunale di Napoli.
Pur volendo prescindere dalle grossolane carenze che inficiano l’elaborato, non può pertanto non criticarsi la filosofia che appare sottesa alla approssimativa utilizzazione dei dati e la complessiva indifferenza circa le ragioni che possono aver determinato l’uso errato della custodia cautelare nel tempo, elaborandosi valutazioni sempre favorevoli circa il governo dello strumento cautelare da parte dei giudici ed omettendosi, di conseguenza, di indagare alcuni profili di criticità derivanti da un uso evidentemente inadeguato delle misure, il cui rilievo avrebbe potuto suggerire alcuni correttivi dei precedenti interventi normativi.
Nonostante l’esplicito riferimento alla presunta rilevanza del cd. braccialetto elettronico ai fini del dedotto incremento dell’adozione della misura detentiva domiciliare, è mancata in realtà ogni utile rilevazione in ordine alla effettiva utilizzazione di tale nuovo strumento, ovvero, in particolare, alla ricorrente impossibilità di applicare la misura gradata degli arresti domiciliari a causa della mancata disponibilità di tale dispositivo di controllo elettronico, nascondendosi tale fenomeno dietro una generica ed encomiastica affermazione circa un (presunto) successo della misura degli arresti domiciliari in quanto “tra le misure alternative alla detenzione quella più utilizzata”.
Al contrario, il dato relativo all’applicazione della misura custodiale in carcere nel 46 % dei casi, avrebbe dovuto far riflettere (sia pure nella sua parzialità e della indistinta riferibilità all’intero territorio nazionale) su come resti altissimo (nonostante il commento favorevole del Ministero), il ricorso alla custodia cautelare in carcere (poco meno della metà del totale delle misure personali adottate), nonostante il Legislatore abbia sempre inteso l’adozione di questo strumento da parte del giudice quale extrema ratio, e dovendosene conseguentemente auspicare una applicazione “residuale” e, dunque, davvero marginale in termini statistici.
Con riferimento alle suddette misurazioni quantitative, non è chiaro poi se la Relazione faccia riferimento solo alle misure inizialmente emesse, o anche a quelle effetto di un’attenuazione delle precedenti in atto, da parte dello stesso giudice della cautela. La mancanza di questo dato fondamentale altera visibilmente il quadro complessivo, perché non restituisce in alcun modo la realtà del fenomeno con riferimento alle singole vicende cautelari.
In questo secondo caso il rapporto tra la custodia cautelare in carcere e le altre misure applicate sarebbe del tutto falsato in favore della prima, perché è patrimonio della conoscenza comune che nella normalità dei casi, alla custodia cautelare in carcere possa seguire un’attenuazione della cautela con gli arresti domiciliari e poi, eventualmente, altra misura coercitiva di minore intensità. Se queste ultime misure concorrono, come sembrerebbe, a comporre il numero rilevato nella relazione, senza alcuna distinzione, il dato finale ne risulta del tutto falsato.
Nessun accenno viene fatto al tema della applicazione “ingiusta” delle misure cautelari, ritenendosi (sia pure implicitamente) che se all’applicazione di una misura cautelare personale segue poi una condanna (sia pure “non definitiva”) l’uso della misura dovrebbe ritenersi in ogni caso rituale.
In questa ottica, si è dunque ritenuto di poter limitare l’indagine solo alla conferma da parte del giudice della cognizione del cd. “presupposto probatorio” e non, invece, alla verifica circa la sussistenza di tutti gli altri presupposti (cautelari) delle misure. Con riferimento a questo specifico aspetto del problema deve essere segnalato il dato relativo al cospicuo numero di procedimenti nei quali all’applicazione della custodia cautelare in carcere e degli arresti domiciliari segue la concessione della sospensione della pena (317 su di un totale di 2.405), con conseguente “smentita” del giudizio prognostico elaborato, ai sensi dell’art. 275 comma 2-bis, dal giudice in sede cautelare.
Come è stato puntualmente rilevato, “per quanto sia ovviamente esecrabile che un innocente venga ingiustamente sottoposto a custodia cautelare, non deve neppure sottacersi che la custodia cautelare viene spesso inutilmente e dannosamente applicata anche nei confronti di coloro che saranno riconosciuti colpevoli. La prospettiva di chi sottovaluta l’analisi di questo aspetto tradisce un dato culturale distorto: che la cautela costituisca in ogni caso una opportuna “anticipazione” della pena”.
L’applicazione delle misure cautelari in “forma” di “pena anticipata” costituisce, infatti, non solo una sofferenza inutile per il cautelato, ed un inutile peso sulla densità abitativa delle strutture carcerarie giudiziarie, ma soprattutto una evidente violazione del principio costituzionale relativo alla finalità della pena (art. 27 Cost.) perché chi sconta, spesso per molti anni, una custodia cautelare in carcere resta sottratto a tutti gli ordinari strumenti trattamentali (quali l’osservazione scientifica, lo svolgimento di attività lavorative, la applicazione di misure extramurarie, ed altro …) necessari ai fini rieducativi propri di una pena detentiva correttamente intesa.
Ciò premesso, in ordine ai molteplici profili di debolezza dell’elaborato, è necessario far riferimento ad un elemento metodologico che inficia in radice la acquisizione dei dati posti a fondamento della intera analisi relativa ai rapporti fra adozione delle diverse misure ed esiti dei relativi processi.
A ben vedere, infatti, le valutazioni statistiche non prendono in esame il numero delle misure cautelari personali, ponendolo in relazione al numero degli indagati/imputati, bensì al numero dei “procedimenti” iscritti. Il numero dei procedimenti iscritti nel 2015 nei 48 uffici presi in considerazione (3.743) sta così a fronte di un numero assai maggiore di misure cautelari (12.959) adottate in quello stesso anno: non è dato sapere conseguentemente quale è il numero esatto degli imputati e degli indagati in percentuale raggiunti da misure cautelari personali, ma solo il numero dei procedimenti nei quali le suddette misure sono state emesse.
Questo “vizio” di origine (evidentemente riconducibile ad una difettosa o tardiva applicazione o entrata a regime del Sistema Informativo di riferimento), altera ogni successiva lettura ed interpretazione del dato statistico in quanto non ci consente di sapere quante persone sono state ingiustamente sottoposte a misure di custodia cautelare (nelle sue differenti modulazioni), ma solo in quanti procedimenti sono intervenute misure cautelari personali ed in quanti procedimenti vi è stata una decisione (definitiva o non definitiva) di condanna o di assoluzione.
E neppure si comprende come si sia potuto operare, se non accedendo ad una inammissibile approssimazione, un calcolo statistico sulla base di un dato disomogeneo quale è quello che riguarda il rapporto non costante fra numero di indagati/imputati e numero di procedimenti, per cui a fronte di procedimenti nei quali figura un solo imputato ve ne sono molti (come attesta la divergenza del numero delle misure adottate che risulta essere superiore di oltre i due terzi rispetto al numero dei procedimenti) nei quali, anche a prescindere dalla natura plurisoggettiva delle fattispecie di reato ipotizzate, compaiono comunque molti indagati/imputati.
Se le valutazioni sono state effettuate in base al numero di misure per ogni procedimento iscritto nell’anno di riferimento, senza conoscere il numero dei soggetti effettivamente cautelati, ci si chiede in che modo si sia potuto elaborare un calcolo statistico del numero delle assoluzioni/condanna rispetto al numero delle misure cautelari personali emesse nel periodo.
Poiché in un procedimento a carico di diversi imputati (nei cui confronti immaginiamo siano state emesse altrettante misure cautelari coercitive) gli esiti possono risultare disomogenei, in quanto uno solo degli imputati può essere condannato e tutti gli altri assolti, o viceversa, non è dato comprendere secondo l’effettuazione di quale “media” o la elaborazione di quale “approssimazione”, si sono ricavati i dati relativi ad una presunta bassa incidenza delle assoluzioni rispetto al numero delle cautele.
Che quello indicato costituisca effettivamente un gravissimo limite dell’indagine lo conferma il fatto che, sebbene in maniera del tutto incidentale, la Relazione stessa ammetta la sussistenza di questo “deficit metodologico” laddove si afferma che, “in prospettiva, occorrerà sfruttare le potenzialità del sistema di registrazione per isolare dati riflettenti, anziché il numero di procedimenti, il numero delle persone assolte dopo aver scontato un regime cautelare” (Rel., p. 13). Porre alla base dell’analisi un rilevamento così poco accurato finisce inevitabilmente con il riflettersi sulla attendibilità dell’intero elaborato.
Questa inattendibilità si riflette inevitabilmente anche sul dato fornito circa il definitività delle decisioni (di condanna o di assoluzione), in quanto come è noto il fenomeno del “passaggio in giudicato” delle decisioni è multiforme e deve essere correttamente valutato in base alle singoli posizioni processuali (se non rispetto a singoli capi) non potendosi operare una valutazione di definitività della decisone (o meglio delle diverse decisioni) del tutto generica, con riferimento ad interi procedimenti.
Stupisce, pertanto, che pure nella consapevolezza di questa inammissibile approssimazione, si sia ritenuto di poter fornire al Parlamento ed all’intero Paese indicazioni circa una “ridottissima incidenza delle assoluzioni di merito nei procedimenti in cui sia stata adottata una misura cautelare e un’ancor più ridotta incidenza delle assoluzioni sui procedimenti nei quali sia stata applicata la misura custodiale carceraria” (Rel., p. 13), con ciò rassicurando indebitamente in ordine ad una totale assenza di abusi e ad un esercizio certamente rituale della cd. “opzione cautelare” da parte dei giudici.
Alla luce di tali rilievi, non può che formularsi un giudizio negativo su questa prima Relazione redatta ai sensi della legge 47/2015. Si tratta certamente di un’occasione perduta, perché un’efficace e penetrante monitoraggio di questa delicatissima materia avrebbe fornito per la prima volta uno straordinario strumento di analisi e di conoscenza del fenomeno, non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche sotto il profilo qualitativo. Ed avrebbe, inoltre consentito, ove si fosse trattato di una rilevazione attuata sull’intero territorio nazionale, anche di esaminare il differente uso delle misure cautelari personali e la efficienza o meno degli strumenti di controllo giurisdizionale, con riferimento alle diverse aree del paese.
Nulla viene detto del perché il 75% dei Tribunali della Repubblica non abbiano risposto alla richiesta del Ministero sottraendosi di fatto a quello che è un obbligo di legge, derivante da una forte esigenza di trasparenza. Il fatto è grave e meriterebbe esso stesso una ulteriore meditazione circa i motivi e le conseguenze di tale inadempimento, che appare tanto più sconcertante se si consideri che il rilevamento attiene non ad esigenze secondarie dell’amministrazione, bensì al nucleo fondamentale delle garanzie di libertà dei cittadini.
La mancanza di una rilevazione completa, sia sotto il profilo cronologico che territoriale, e la assenza di dati analitici capaci di porre in relazione ogni singola posizione processuale con la adozione di singole misure cautelari e con uno specifico esito processuale, rende del tutto inutilizzabili le valutazioni contenute nella Relazione, le quali, proprio perché fondate su dati del tutto approssimativi, finiscono con il rappresentare un quadro totalmente difforme rispetto alla realtà, rafforzandoci nella convinzione – adottata su base esperienziale – che, ad onta degli interventi legislativi che si sono susseguiti nel precedente triennio, il fenomeno relativo all’utilizzo distorto delle misure cautelari personali non si sia affatto attenuato, e che non sia soprattutto in alcun modo maturata quella “cultura della libertà” che dovrebbe accompagnare ogni riforma in materia.
Roma, 28 agosto 2016
Il Segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane Avv. Francesco Petrelli
Il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Avv. Beniamino Migliucci