Nata a Mogadiscio da mamma etiope e padre italiano, arrivata in Italia da bambina dopo essere stata cacciata in 48 ore dalla Somalia con la sua famiglia dal regime di Siad Barre, Saba Anglana è la testimonianza di come il contatto e la mescolanza tra varie culture possa portare solo benefici a chi apre la propria mente e il proprio cuore all’ “altro”.
E non soltanto perché la sua storia di migrante è una di quelle a lieto fine, ma anche e soprattutto perché quell’interculturalità che è parte integrante di lei approdano nelle sue canzoni e in tutti i progetti che la vedono impegnata anche come attrice e autrice, con una forza e un’energia incredibilmente contagiose e “terapeutiche”. Sì, perché è propria di una simile terapia che oggi in Italia e nel mondo abbiamo più bisogno per aprire i nostri orizzonti e lasciarci arricchire da chi ci chiede aiuto e protezione.
Ed è quello che Saba Anglana cerca di far capire con i suoi numerosi progetti in ambito culturale e artistico. A renderle il compito decisamente più semplice una voce e una capacità espressiva che incantano il pubblico, come accaduto di recente a Pescara in occasione della messa in scena dello spettacolo teatrale “Rosamara” che la vede protagonista insieme all’attrice abruzzese Tiziana Di Tonno e all’Orchestra femminile del Mediterraneo diretta dal Maestro Antonella De Angelis (leggi l’articolo).
L’impegno sociale di Anglana si concretizza anche in qualità di testimonial di Amref e dell’Osservatorio italiano sull’azione globale contro l’Aids.
Noi di Felicità Pubblica l’abbiamo incontrata e intervistata nei giorni scorsi a Pescara in occasione del Premio Dean Martin, che quest’anno ha visto anche Anglana ricevere il “cappello” del celebre crooner di origini abruzzesi.
Di seguito il testo dell’intervista video.
Lei è un’artista a tutto tondo, attrice, cantante, doppiatrice, ma c’è un filo conduttore che unisce tutta la sua attività artistica e culturale, ed è la multiculturalità.
Sì. Che poi in realtà non è neanche un’ossessione, non è neanche qualcosa di cercato a tutti i costi, è un atteggiamento naturale, forse è un’attitudine di chi, come me, è nato nell’alveo di un fiume molto ricco, che tocca diversi territori, che nutre molti campi è abbastanza normale mescolare le cose e creare anche una specie di sinergia tra tutte le varie forme di espressioni. Fino a qualche anno fa pensavo che il mio curriculum fosse un po’ schizofrenico. Ero alla ricerca di chissà che cosa, quindi diverse attività in diversi campi. Però io credo che la maturità poi ti regala delle risposte. Perché agivo in questo modo? Perché mescolavo così tanto? Perché è nella mia natura e perché chi è curioso e chi ha fame di mondo si mescola. Non a caso uno dei miei dischi si chiama proprio “La vita ci mescola”, Life changanyisha, che poi è detto addirittura in lingua swahili che è una ligua che io non conosco ma che ho appreso quel poco che basta per cantarla in un disco dai masai, viaggiando. Quindi viaggiando, muovendosi nel mondo, passo dopo passo, è bello, ci si arricchisce, ci si rinventa e soprattutto si abbandona questa ossessione per l’identità. Io non sono per niente ossessionata dalla mia identità anche se ne parlo molto. Ma la racconto come qualcosa che si trasforma quotidianamente, anche dopo questa chiacchierata tra di noi, probabilmente ci sarà qualcosa nei tuoi occhi, in come me lo hai chiesto, in come ci stanno inquadrando, qualcosa che andrà a cambiare anche se in minima parte la mia visione del mondo. Pensa alle grandi esperienze, pensa alla geografia, pensa alla musica.
Oggi ha ricevuto il Premio Dean Martin, ma come è stata la tua esperienza di migrante?
Io ho avuto la fortuna di abbandonare il Paese da cui sono nata – anche se poi in maniera abbastanza traumatica perché ci hanno dato 48 ore per lasciarlo. Mio padre italiano, mia madre etiope in Somalia, quindi in un Paese che ci sentiva, ci percepiva come degli stranieri, anche se eravamo nati lì, la prima lingua di mia mamma era quella, la prima ninna nanna io l’ho sentita in somalo – io però ho avuto la fortuna di lasciare quel Paese per questioni politiche, da profuga, su un aereo. Quindi siamo venuti in Italia come primo esempio di quella che si chiama diaspora, di questa emorragia continua di un popolo che sta ancora soffrendo molto, con una certa fortuna. Adesso invece il problema è che molti abbandonano il proprio Paese in maniera veramente disperata, ricorrendo a tutti gli strumenti possibili per potersi allontanare, addirittura anche a piedi, come so, come sappiamo tutti quanti. Le cose cambiano però dobbiamo riuscire a capire che se c’è da una parte un web, i social network, queste finestre onnivore sul mondo, sulla geografia, che ci fanno sembrare le distanze percorribili molto velocemente – ad esempio noi sappiamo in tempo reale cosa sta cucinando uno chef a Seul, che cosa bolle in pentola a una casalinga di Tokyo – allo stesso tempo però poi chiudiamo le frontiere e torniamo ai ponti levatoi, ai fossati intorno ai castelli, e quindi a una forma di chiusura forse anche di stampo capitalistico, a difendere la nostra proprietà. Questo è assolutamente in contraddizione rispetto alla tendenza tecnologica e della cultura globale. Questa collisione crea una forma di schizofrenia. Viviamo quindi in un’epoca in cui la parola libertà è quasi abusata. Tutti parlano di libertà, di possibilità di muoversi e in realtà si costruiscono muri nel terzo millennio in Europa. Noi che abbiamo alle nostre spalle una storia di geografia e di spostamenti abbiamo il dovere, oltre che il diritto, di raccontare le nostre storie perché dal particolare possiamo raggiungere l’universale. Possiamo mettere di fronte all’umanità, che amiamo e che sentiamocontinuiamo a vivere come nostra, il fatto che dobbiamo sanare questa contraddiione, sanare anche nel senso più etimologico della parola.
C’è soprattutto molta diffidenza nei confronti degli stranieri, soprattutto quando questi ultimi non ci provocano un senso, possiamo dirlo, di pietà?
Grazie. Infatti l’ho ricordato anche stasera, perché questa cosa mi premeva. Sui social ultimamente leggo delle castronerie, e questo fa anche parte del gioco, però sento tuonare contro gli immigrati che magari hanno due telefoni, che vanno in giro con le cuffiette, che magari hanno un paio di scarpe nuove, sono vestiti come dei ragazzi normali, magari in stampo un po’ americano, perché la diaspora fa anche questo tipo di danni,. Però come ragazzi normali, anche se magari hanno attraversato il mare, qui si “ripuliscono” come ogni essere umano vorrebbe. Ho attraversato tutto questo però ora qui io cerco di riconquistare quella dignità e cerco di farlo io attraverso gli strumenti che la modernità mi offre, come un vestito pulito, un telefonino. Quindi questi diventato degli strumenti per dimostdichiarare una forma di normalità. C’è tanta fame di normalità, gli immigrati hanno bisogno di questo, creare una normalità nella loro vita. Però questo non gli è permesso, questo è fortemente osteggiato da chi invece “perdona” l’immigrato soltanto se è un veramente derelitto. Ok, hai lo stereotipo del disperato e quindi meriti la mia compassione. E quindi è sempre un atteggiamento dall’alto al basso, non è mai un atteggiamento alla pari. E questo è deleterio, perché è lo stesso meccanismo in cui si va a relegare la musica che chiamano “musica del mondo”, come dicono molti “etnica” (che è un termine bruttissimo che va combattuto) dentro dei ghetti culturali. E’ lo stesso tipo di meccanismo. Per cui se io so che la tua musica racconta la disperazione, tu sei grande, tu parli per l’umanità, però ti metto in quel cassetto. Anzi sei musica di nicchia, e quando dicono nicchia ti hanno già messo in un’urna cineraria, ti hanno già fatto il funerale. E questo contraddice il principio di vita che muove soprattutto quelli che raccontano la storia di migranti e che sono stati migranti loro stessi. Lo ricordavo questa sera. gli scrittori classici ci hanno raccontato e ci hanno consegnato storie bellissime di migranti che hanno fondato intere civiltà, parlo di Ulisse, parlo di Enea, parlo di chi pensava che la geografia fosse un’opportunità.
Qual è secondo lei il fattore più importante per il raggiungimento della felicità pubblica?
Purtroppo mi viene una parola anche questa molto abusata. Una parola che si sono presi i social network e che è stata talmente brutalizzata e svuotata dal suo significato, che la si usa senza comprende il vero assunto: la condivisione, condividere. Che significa condividere le proprie storie, condividere il proprio dolore, condividere la propria contentezza, condividere la propria visione del mondo. Quindi creare una forma di circolazione delle proprie idee, mettersi in una specie di circuito virtuoso in cui si crea un’energia anche nel dibattito. Quindi condividere significa questo, in maniera autentica. Io credo che il grimaldello un po’ per poter anche scardinare questa gabbia mentale, psicologica, in cui hanno chiuso la nostra felicità è proprio l’idea di condivisione, perché la forza è data dall’unione e quindi da questa circolazione, da questa condivisione.