Da pochi giorni è disponibile il Secondo Rapporto sull’Innovazione Sociale, dal titolo Modelli ed esperienze di innovazione sociale in Italia, curato da Matteo G. Caroli, edito dalla casa editrice Franco Angeli nella collana Open Access.
La ricerca è stata svolta dal Centro di Ricerca Internazionale per l’Innovazione Sociale dell’Università Luiss Guido Carli di Roma e sostenuta dalla Fondazione Italiacamp.
«L’innovazione sociale», sostiene Gianni Lo Storto, direttore Generale della Luiss nella presentazione del volume, «può essere definita come una soluzione a un problema sociale che sia più efficace, efficiente e sostenibile di quelle già messe in atto, e in cui il valore creato vada a vantaggio della società prima che ai singoli individui. Il “cuore” dell’innovazione sta quindi soprattutto nelle nuove relazioni attivate: più che di oggetti o fenomeni isolati, l’innovazione è questione di connessioni».
La specificità dello studio consiste nel proporre, in una prospettiva unitaria, analisi teoriche, ricerche sociali ed esperienze di campo, potendo così rappresentare per il lettore un prezioso riferimento sia per la riflessione sia per l’azione.
Non a caso Matteo G. Caroli, direttore del CERIIS, sottolinea come lo studio prenda in esame l’evoluzione dell’innovazione sociale in Italia attraverso l’analisi di 500 esperienze e l’approfondimento di oltre 50 casi.
«In particolare, lo studio identifica le caratteristiche chiave dell’innovazione sociale e le principali condizioni che ne favoriscono lo sviluppo; evidenzia gli ambiti di rilievo sociale dove il fenomeno in questione risulta più frequente; le specificità dei soggetti tipicamente coinvolti e le modalità (appunto, innovative) con cui essi interagiscono nell’implementazione delle iniziative. Successivamente, il lavoro approfondisce le condizioni che determinano la possibile sostenibilità economica dell’innovazione sociale, anche fornendo una stima dei finanziamenti pubblici che in questi anni ne hanno supportato l’avvio. Analizza, poi, quanto accade nell’ambito delle imprese “profit”, cogliendo la connessione tra innovazione e politiche di corporate social responsability. Sulla base dei risultati derivanti dall’analisi di tali questioni, il rapporto presenta un set di proposte per l’elaborazione di una politica organica a favore dello sviluppo dell’innovazione sociale. Nella terza parte conclusiva, sono presentati alcuni contributi su particolari problematiche relative all’innovazione sociale, tra cui quella del coinvolgimento dei giovani».
Per invitare i nostri lettori alla consultazione del volume abbiamo scelto di proporre di seguito un paragrafo del saggio di Riccardo Maiolini sullo stato dell’arte della letteratura sull’innovazione sociale. Ci è sembrato utile, dopo aver preso in esame tante esperienze concrete di innovazione sociale, tornare a soffermarci su alcune rilevanti questioni teoriche che sono alla base di un processo certamente molto ricco ma, talvolta, anche confuso e caotico.
L’Innovazione sociale: alternativa alle istituzioni e alle logiche di mercato
Con il termine “social innovation”, nel corso degli ultimi anni, si sono espressi concetti non sempre univoci. Un primo filone di letteratura fa risalire la SI alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo, in particolare al movimento di estrazione sociologica denominato Big Society (Cameron, 2010; Kisby, 2010). Il movimento nasce su proposta di Anthony Giddens, che nel suo libro la Terza Via (1998), prospetta un modello secondo il quale è necessario ridurre l’azione del Big Government, e favorire lo sviluppo dell’iniziativa dei liberi cittadini di associarsi per trovare soluzioni alternative a esigenze di natura sociale. La teoria di Giddens fu applicata nel 2010, dal Primo Ministro Inglese Cameron che si dichiarava favorevole ad una redistribuzione del potere, attraverso la promozione di una spinta dal basso, sia in termini sociali che economici (Euricse, 2011).
La politica di Cameron era rivolta, da una parte alla riduzione dei costi pubblici, dall’altra cercava di incoraggiare il senso comunitario e la libera iniziativa dei cittadini inglesi, cercando di spostare i servizi dello Stato centrale verso le comunità locali. Con il modello della Big Society s’intendeva modificare il concetto di servizio ed il ruolo dello Stato rispetto all’erogazione stessa del servizio: aumentare l’autonomia locale e ridurre la forza dello stato centrale e favorire in questo modo un processo di disintermediazione sui servizi sociali. Una delle maggiori motivazioni alla base della disintermediazione localizzata è data dal fatto che ogni comunità ha caratteristiche ed esigenze specifiche. Un’azione diretta e mirata consentirebbe una maggiore efficienza, nonché una riduzione degli sprechi.
La SI diventa l’emblema di un nuovo modo di concepire il rapporto tra attore pubblico e cittadino, dove viene meno l’unidirezionalità del rapporto erogatore/fruitore, per favorire lo sviluppo di forme di collaborazione e partecipazione attiva da parte dei cittadini nella progettazione di nuovi prodotti o servizi di pubblica utilità che lo Stato da solo non è più in grado di erogare. In sintesi, l’origine della SI trae spunto dalla crisi dei sistemi di welfare tradizionali e trova applicazione in una serie d’interventi che promuovono migliori condizioni di vita delle persone e delle comunità, in particolare di quelle riconosciute, a vario titolo, come “svantaggiate” (Cottino, Zandonai, 2012) o potenzialmente tali.
La SI è espressione di una dimensione “locale” di esigenze che si esprime attraverso il concetto di relazione di prossimità (Pellizzoni, 2014), ossia un insieme di azioni di un territorio che sono espressione di una caratterizzazione geografica e di una capacità identitaria di tipo politico, sociale e culturale. La relazione di prossimità si innesta nel processo di conversione del modello di welfare nel quale è necessario rivedere il ruolo delle comunità locali a seguito della crisi di legittimità del moderno sistema di rappresentanza e dell’attuale sistema democratico, legato alla crisi del modello produttivo e del complementare modello di relazioni industriali. A seguito dell’importante crescita economica e sociale partita con il secondo dopoguerra, la crisi degli anni settanta e l’ultima crisi del nuovo secolo hanno condotto lentamente il mondo occidentale in una situazione di “austerità permanente” (Pierson, 2001), contraddistinta dal comparire di nuovi bisogni sociali, emersi da importanti cambiamenti, economici, culturali e demografici. Si aggiunge a tutto ciò l’impossibilità di promuovere un intervento diretto dello Stato a causa della sempre più incessante necessità di contenimento della spesa pubblica. In questo contesto, nel quale sono mutate le esigenze ma non ancora gli strumenti risolutivi, è necessario pensare a programmi di assistenza sociale nuovi a fronte di una domanda di tutela maggiormente differenziata.
Si sente sempre di più la necessità di abbandonare strumenti orizzontali per sviluppare modelli verticali che escano dalle logiche finora adottate e che provino a rispondere a esigenze specifiche, molto spesso diverse tra di loro. A partire dagli anni novanta, nella maggioranza dei paesi europei si è avviato il consolidamento di un modello di matrice neo-liberista che promuove la visione di uno “stato minimo” in grado di ricondurre l’azione pubblica a meccanismi di mercato con l’obiettivo di soddisfare bisogni individuali diffusi (Bonoli et al., 2000). Il contesto di crisi economica assottiglia drammaticamente le risorse disponibili per l’erogazione di servizi di primo welfare. Come detto da Nicholls e Murdock (2012) la maggior parte dei problemi irrisolvibili sono visti come evidenza del fallimento delle soluzioni e di paradigmi convenzionali radicati in contesti istituzionali tradizionali della società. La SI nasce come risposta ad una domanda collettiva di servizi assistenziali che però necessitano di adattarsi a contesti e situazioni diverse per rispondere a domande sociali urgenti e importanti. Adattarsi significa ridisegnare le politiche pubbliche e immaginare forme alternative di partecipazione. La soluzione proposta in questo scenario è orientata all’individuazione di nuovi modelli di partnership tra pubblico e privato, con la logica di includere soggetti nuovi nel processo di governance al fine di superare le rigidità del modello di welfare post bellico (Canale, 2013), come, per esempio, attraverso l’inclusione di processi industriali all’interno dei fenomeni di urbanizzazione (Mulgan, 2006).
La SI viene presentata come una formula sintetica in grado di indicare contemporaneamente concetti come quelli di cambiamento istituzionale, fine sociale e bene comune (Pol e Ville, 2009). L’innovazione sociale, secondo Murray, Grice e Mulgan, è un concetto complesso, definibile come: “L’insieme di pratiche, di strategie, d’interpretazioni socio-economiche, di nuove tecnologie e nuove forme organizzative in cui i rapporti e le relazioni sociali diventano fondamentali presupposti per sviluppare l’attività imprenditoriale attraverso un approccio pragmatico all’identificazione di soluzioni ai problemi sociali. […] Attraverso l’innovazione sociale si cerca di individuare nuovi modi per organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno politico”.
La socializzazione tra individui permette lo sviluppo di nuove forme organizzative al fine di favorire l’attività imprenditoriale come spinta per la ricerca di nuovi modelli d’impresa in grado di erogare prodotti o servizi innovativi che rispondono alle esigenze dei nuovi fabbisogni sociali.
La SI, secondo questa prospettiva, va compresa più per la sua capacità di creare impatto sociale, più che per la novità intrinseca nelle proposte. Quello che conta è il miglioramento del risultato sociale in termini comparativi tra le soluzioni già esistenti e quelle nuove, piuttosto che la novità dei servizi in sé (Neumeier, 2012). Un’innovazione è una SI, se la nuova idea ha il potenziale per migliorare la qualità della vita di una determinata comunità (Poll e Ville, 2008) e se crea una discontinuità con il passato, dove la soluzione proposta migliora le condizioni rispetto allo stato precedente delle cose.
L’accezione sociale del termine innovazione amplia notevolmente le tipologie d’innovazione incluse nella definizione di Murray, Grice e Mulgan. Come trasferito da Hamalainen e Heiskala esistono cinque tipi di SI: tecnologica, economica, regolativa, normativa e culturale.
“Le innovazioni tecnologiche sono modi nuovi e più efficienti per trasformare la realtà materiale, mentre le innovazioni economiche mettono le innovazioni tecnologiche al servizio della produzione di plusvalore. Nel loro insieme queste due tipologie d’innovazione costituiscono la sfera delle innovazioni tecno-economiche […] Le innovazioni regolative trasformano le norme esplicite e/o i modi con cui sono sanzionate. Le innovazioni normative sfidano i valori affermati e/o il modo in cui i valori sono tradotti in norme sociali legittime. Infine, le innovazioni culturali sfidano i modi affermati per interpretare la realtà, trasformando paradigmi mentali, cornici cognitive e abitudini interpretative. Nel loro insieme queste tre classi costituiscono la sfera delle innovazioni sociali” (Hamalainen e Heiskala, 2007).
Si tratta di classi e modelli che enfatizzano il processo di socialità delle innovazioni attraverso l’interazione tra attori, che si riconoscono nella necessità di organizzarsi per trovare risposte a bisogni di tipo sociale (Zamagni, 2008), per esempio attraverso la riduzione dei costi di produzione (Borzaga, 2014). La vera novità che emerge da questa impostazione è che il focus non è tanto sugli attori o sulle organizzazioni ma sulle problematiche e sulle relative soluzioni; questo favorisce l’emergere di nuove forme di collaborazione tra attori, pubblici, privati e non-profit. Proprio in questa direzione si rivolge, quindi, la definizione di SI proposta da Nesta, per cui l’Innovazione Sociale e “un’innovazione che risolve un bisogno sociale che non è stato risolto da interventi tradizionali né da parte di soggetti privati che da servizi organizzati da parte dell’attore pubblico”.
Secondo la Commissione Europea e l’ufficio del BEPA (Bureau of European Policiy Advisers) “la SI si caratterizza per la ricerca di bisogni sociali attraverso nuove forme di collaborazione e relazioni tra diversi gruppi di individui”. L’innovatività delle relazioni è il punto cardine del concetto di SI: attraverso l’individuazione di nuovi modelli relazionali e attraverso il coinvolgimento di gruppi d’individui che finora collaboravano o non in maniera tradizionale. La vera novità è rappresentata dal fatto che l’individuazione di ambiti di azione e bisogni su cui agire è rilasciata agli individui e alla loro capacità di sviluppare relazioni. In altre parole, la costruzione di reti relazionali tra diversi attori determina la capacità di individuazione dei problemi e la conseguente ricerca di proposte risolutive.
Con questa definizione si sancisce la relatività delle innovazioni sociali, sia in termini spaziali che di contenuto. Ogni azione di innovazione sociale dipende innanzitutto dalle tipologie di attori che si organizzano, si coalizzano e, successivamente, dalla loro capacità di scambiarsi informazioni e flussi di conoscenza al fine di sviluppare soluzioni ai problemi precedentemente emersi. Come definito dalla BEPA (2010) “Ogni innovazione sociale è sociale sia nei suoi mezzi che nei suoi fini”.
Ogni attività di SI deve essere coerente nella generazione di valore sociale (i fini) attraverso la scelta di metodi e strumenti adeguati per la realizzazione (i mezzi). Ciò avviene attraverso la dimensione collettiva della SI e l’innovazione delle relazioni tra diversi attori. Ogni qualvolta si costituisce una comunità di interesse relativa ad un determinato bisogno sociale si attivano relazioni nuove che portano alla selezione e individuazione di nuove soluzioni al problema inziale. Tale processo può nascere, sostanzialmente, in due modi: si individua un problema sociale (riconosciuto come tale) e si costituisce una rete di attori intorno a quel problema che, attraverso un legame di valore, individua una serie di soluzioni; oppure si parte dalla costruzione di relazioni e dal riconoscimento di un network, successivamente si identificano problemi sui quali concentrare lo sforzo risolutorio.
In entrambi i casi si evidenzia comunque la necessità di riconoscere un contesto storico e geografico quale punto di partenza, e da quello avviare processi di sensibilizzazione e di coinvolgimento di un numero ampio di attori, nell’ottica di determinare la struttura del processo di SI e il relativo spettro di azione.