“L’ordine delle cose” è un’espressione vuota, non ha alcun significato finché non siamo noi stessi a riempirla di senso. Il senso che questo film di Andrea Segre prova a darle è una rassegnata accettazione del cosiddetto realismo politico.
Siamo in Libia, le coste popolate da migranti in attesa di partire e l’Italia nel pieno delle trattative per “regolare i flussi”. Così un alto funzionario del ministero degli Esteri viene mandato a negoziare con il capo della Guardia Costiera e il proprietario di un centro di detenzione, acerrimi nemici, un accordo volto alla diminuzione delle partenze.
Su questo scenario, la politica italiana muove le sue pedine alla ricerca di risultati, mai di mezzi. Perché gli sbarchi devono diminuire, punto.
Essere il Paese dell’accoglienza e della solidarietà dovrebbe significare permettere alle persone di arrivare in modo sicuro e se in modo sicuro non si vuole, almeno di arrivare. Morire in mezzo al mare o in una prigione, dove si è spinti a resistere dall’illusione di partire, è la stessa cosa.
Corrado Rinaldi, personaggio che Paolo Pierobon interpreta magistralmente, visita i centri di detenzione libici e sostiene che la Guardia Costiera possa cominciare a riportare a riva le imbarcazioni già partite solo dopo una ristrutturazione e un ampliamento dei suddetti centri.
Perché quelli che vede lui sono posti dove si muore, dove nessun diritto è garantito; sono posti gestiti da trafficanti con una divisa, senza nessuno scrupolo né attenzione.
Ma i risultati si devono raggiungere, non si può aspettare, non c’è tempo per verificare, migliorare, adeguare. E così ci si adegua a quel realismo politico che forse dovrebbe chiamarsi opportunismo politico.
L’ordine delle cose è un film che con una delicata fermezza racconta una storia, la storia, di persone che si spostano, soffrendo, perché devono; spinte dalla guerra o dal voler migliorare le proprie condizioni di vita, tutte le motivazioni sono valide.
Destinazione: la bellissima e civilizzata Europa che non riesce ad attuare una politica comune e accetta che le nazioni chiudano i propri confini attraverso accordi sanguinari.
Il problema è che questo non è un film.