«Poi, lo sai, non c’è un senso a questo tempo che non dà il giusto peso a quello che viviamo. Ogni ricordo è più importante condividerlo, che viverlo». Nel tormentone estivo del 2016 J-Ax e Fedez cantavano questa assurda realtà.
Una realtà che racconta di un’estenuante voglia di apparire sui social network, di mettere in piazza la propria vita, di collezionare il maggior numero di like su Facebook, di cuori su Instagram o di “ri-cinguettii” su Twitter (solo per citare i principali). Lungi da noi voler demonizzare il web, al contrario. Dopotutto siamo una testata online, abbiamo i nostri canali social e siamo lusingati dell’interazione con i nostri amici/followers.
Quello su cui vogliamo puntare l’attenzione è, però, il pericoloso utilizzo che troppo spesso viene fatto dei social network soprattutto a discapito dei più giovani o dei più deboli.
Partire dal fenomeno del bullismo è d’obbligo, soprattutto alla luce del recente episodio del padre di un ragazzino di 13 anni, vittima di un pestaggio, che ha scelto di pubblicare la foto del figlio con il volto tumefatto per attirare l’attenzione del distratto popolo del web. Giusto o sbagliato che sia, il suo gesto ha messo in evidenza una tristissima realtà: la gente non legge e per questo c’è bisogno delle immagini.
“Posto ergo sum”. Apparire prima ancora di essere, quindi, che attraverso i social network cresce a dismisura e fa leva soprattutto sulle menti giovani o più fragili. Nascono così le pericolose “catene”, quelle sfide assurde eppure così diffuse, che a partire da un soggetto che le lancia, attraverso le condivisioni sul web, diventano azioni da replicare, gesti da emulare, like da ottenere.
Citarle tutte sarebbe difficile, ma basta prendere come esempio gli ultimi fatti di cronaca e gli ultimi allarmi lanciati in tutto il mondo, compresa l’Italia, per capire come ci si trovi davanti a un fenomeno davvero molto pericoloso e complesso da arginare.
Se un tempo la bravata di un ragazzo restava chiusa all’interno di una scuola, di un paese o al massimo di una città, e l’emulazione era limitata a pochissimi coetanei, oggi attraverso la Rete il gesto sconsiderato di un adolescente russo può essere replicato da un quindicenne dell’Ohio così come da un tredicenne calabrese, che viene travolto da un treno con il quale aveva deciso di farsi un selfie (la notizia è di appena due settimane fa).
In particolare quello del cosiddetto “daredevil selfie” (selfie temerario) è un fenomeno pericoloso che nel solo 2014 ha portato alla morte di 140 persone, quasi tutte giovanissime, che hanno sfidato la sorte per immortalarsi sulle rotaie, o sporgendosi su precipizi, o avvicinandosi ad animali pericolosi o ancora puntandosi un’arma alla testa, e che purtroppo sono stati beffati più che dal destino, in molti casi dall’ingenuità, in altri dalla stupidità, in quasi tutti dal disagio. E si tratta di numeri in costante crescita purtroppo.
Ad avere il triste primato sono l’India e la Russia, quest’ultima costretta negli ultimi mesi a fare i conti con l’ennesima moda mortale: si chiama Blue Whale (balena azzurra) e consiste in un “gioco” (che di divertente non ha proprio nulla però) che si sviluppa attraverso 50 tappe sempre più difficili. Si parte dall’incisione sul proprio corpo della sagoma di una balena azzurra per poi arrivare, dopo 48 assurde sfide, all’ultimo letale livello: scegliere l’edificio più alto e lanciarsi giù.
Una moda che nessuno seguirà? Al contrario, la sfida mortale ha già ucciso 130 adolescenti russi. Così come sono già centinaia i ragazzi statunitensi che hanno aderito all’“eraser challenge”, l’atroce sfida che consiste nello sfregare la gomma da cancellare (appunto eraser in inglese) su un punto del proprio corpo e resistere il più a lungo possibile, nonostante le profonde abrasioni.
Come risolvere il problema? Bisogna chiudere i social network? Niente affatto. Bisogna però imparare ad ascoltare i disagi degli adolescenti, saper cogliere i messaggi che inconsciamente lanciano agli adulti e controllarli, se necessario. Lasciare un tredicenne libero di navigare sulla Rete senza il minimo controllo, in nome del rispetto della privacy e della libertà individuale accampata da molti genitori, è un po’ come gettarlo in una gabbia di leoni.
E magari passargli il cellulare per un daredevil selfie.
Il direttore
Vignetta in copertina: Freccia