Ci sono giorni in cui mi vergogno. Di cosa? Di far parte di un mondo dove si è persa l’umanità, la ragione, il dialogo, il buon senso, le regole basilari del vivere civile. Può accedere nella comunità in cui vivo, e allora mi vergogno di abitare in questa città. Molto più spesso accade nel nostro Paese, e in quel caso mi vergogno di essere italiana. Ancora più di frequente, ormai purtroppo ogni giorno, tali episodi accadono in qualche posto del mondo, e anche in quel caso mi vergogno di farne parte.
Certamente non ho colpa, almeno non in maniera diretta, ma far finta di niente, proseguire con la propria vita, girarsi dall’altra parte, a me sembra ugualmente un peso difficile da tollerare, e dunque mi vergogno.
Ma ancora prima di vergognarmi, io mi indigno, perché è il minimo che posso fare per non perdere completamente l’umanità.
E’ accaduto ancora, questa settimana, nella capitale del mio Paese, Roma, e non in un quartiere di periferia, ma in pieno centro, dove un intero palazzo occupato abusivamente da richiedenti asilo e rifugiati principalmente somali ed eritrei è stato sgomberato. Nulla di strano sul fatto che si voglia riportare la legalità quando avviene un abuso, ci mancherebbe.
Ma ciò che mi ha indignato – e non sono l’unica -, ciò che mi ha fatto vergognare ancora una volta (ahimè) di essere italiana, è stata la violenza, la rabbia, l’inumanità dello sgombero. Quella violenza che ha riportato alla mia mente le immagini di Genova, della caserma di Bolzaneto e di piazza Alimonda (solo per citare i casi più eclatanti) e che non avrei mai più voluto vedere.
Tutti abbiamo assistito impotenti a quelle scene da brivido: uomini, donne, bambini, anziani, malati trattati come bestie feroci da contenere, o come un’invasione di insetti da annientare. Parole troppo dure? Niente affatto. Non sono le mie parole ad essere spietate, ma quelle di chi ha suggerito di spezzare braccia se necessario, come se davvero ci fosse un motivo necessario per spezzare un arto a chi sta perdendo tutto in poche ore. Perché è così che si sente chi sta perdendo una casa, per quanto provvisoria e occupata abusivamente essa sia. Soprattutto se di casa ne hai già persa una, abbandonata a malincuore per cercare un futuro migliore in un Stato “civile”.
Lo so perché me lo hanno raccontato. Appena qualche mese la stessa situazione si è verificata a pochi passi da casa mia, nella mia città. Fortunatamente non con la stessa violenza, ma senza dubbio con lo stesso dolore. Il dolore di chi mi ha detto: “Ci hanno tolto la casa e i nostri averi e con essa il nostro lavoro, la nostra quotidianità e la nostra dignità. E anche adesso che siamo ormai morti, continuano ad ucciderci lasciandoci dormire per strada”.
Ed è anche di questo che mi vergogno. Di uno Stato che usa le maniere forti per ripristinare la legalità, senza però avere già pronta una soluzione. Come se cacciare centinaia di persone da un palazzo e sbatterle per strada sia davvero il modo giusto per risolvere il problema. Senza pensare alle conseguenze per i protagonisti dello sgombero e per l’intera città, costretta a fare i conti con un’emergenza ancora più grave e problematica.
E, perdonatemi, se mi vergogno anche del “mea culpa” del giorno dopo, del “d’ora in poi le cose andranno diversamente”, del “ci sono già 600 immobili a disposizione per i successivi sgomberi”, del “useremo i beni confiscati alla criminalità”, dell’atteggiamento di chi usa il bastone e poi per salvare la faccia tira fuori la carota, di questo trito e ritrito ballo del pinguino, in cui dopo aver fatto un passo avanti se ne fanno due indietro.
Il punto è un altro. Se le case a disposizione ci sono, perché non vengono assegnate? Se ci sono delle occupazioni abusive, perché si aspettano anni prima di risolverle? Se i beni della criminalità sono stati confiscati, perché restano vuoti a marcire senza essere destinati?
Queste sono solo alcune delle domande che in tantissimi ci poniamo, ma che purtroppo non trovano mai risposta.
E allora, scusate, ma io mi vergogno.
Il direttore
Vignetta di copertina: Freccia.