In questi giorni abbiamo letto molti commenti sui provvedimenti presi dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump sull’immigrazione e i diritti dei rifugiati, denominati – con qualche approssimazione – Muslim ban. Proviamo, in estrema sintesi, a ripercorrerne i contenuti.
In primo luogo l’ammissione dei rifugiati negli Stati Uniti, nell’ambito del programma di accoglienza, è stata sospesa per 120 giorni. In particolare è stato promulgato il divieto di ingresso per le persone provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana (Iran, Iraq, Sudan, Siria, Libia, Somalia e Yemen) per un periodo di 90 giorni. Originariamente l’ordine ha riguardato anche i cittadini dei 7 Paesi con doppio passaporto, anche se successive interpretazioni sembrano aver attenuato la misura. Inoltre il numero totale di rifugiati negli Stati Uniti nell’anno 2017 è stato limitato a 50 mila unità, introducendo una revisione dei criteri di accettazione dei singoli Stati.
Le reazioni al provvedimento sono state durissime e hanno interessato l’intera società americana, dal movimento delle donne a quello di tutela dei diritti degli immigrati, dai governatori di molti Stati alle grandi compagnie della Silicon Valley. Mobilitato il Partito Democratico, perplesso quello Repubblicano. Quasi nessuno si aspettava che le livide affermazioni elettorali contro le minoranze e gli immigrati si traducessero immediatamente in atti di governo. Trump ha preso alla sprovvista l’intera società americana, ma allo stesso tempo certamente non si sarebbe atteso una reazione così estesa e veemente.
Basta leggere le dichiarazioni di associazioni e organismi assolutamente fuori dalla mischia. Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, ha giudicato il decreto del presidente Trump “una decisione agghiacciante che potrebbe avere conseguenze catastrofiche. (…) Gli uomini, le donne e i bambini contro i quali è rivolto questo decreto sono vittime dello stesso terrore che il presidente Trump dichiara di voler combattere. Da non credersi, tanto più se si pensa che gli Usa hanno direttamente contribuito all’instabilità che spinge in molti Paesi la gente a fuggire”. “Negare protezione a chi ne ha bisogno non è la risposta alla peggiore crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale. Invece di chiudere le porte in faccia a coloro che non hanno altra scelta se non fuggire dalle loro case, l’amministrazione Trump dovrebbe ricordarsi che proprio gli Usa sono un Paese costruito in larga parte da migranti e rifugiati. (…) Questo decreto vergognoso e profondamente sbagliato segna anche un pericoloso precedente in un periodo in cui i Paesi stanno cercando il modo per fermare i flussi di rifugiati”.
Pacata ma ferma la dichiarazione congiunta dell’UNHCR, Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e l’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. “I bisogni dei rifugiati e dei migranti in tutto il mondo non sono mai stati così grandi, e il programma di reinsediamento degli Stati Uniti è uno dei più importanti al mondo. La tradizione politica degli Stati Uniti di accogliere i rifugiati ha creato una situazione di doppio beneficio: ha salvato la vita di alcune delle persone più vulnerabili del mondo, che hanno a loro volta arricchito e rafforzato le loro nuove società. Il contributo che rifugiati e migranti hanno apportato ai Paesi che li hanno ospitati in tutto il mondo è stato assolutamente positivo. Le quote di reinsediamento fornite da ogni Paese sono di vitale importanza. (…) Rimane l’impegno di UNHCR ed OIM a lavorare con l’amministrazione degli Stati Uniti per l’obiettivo condiviso di garantire programmi di reinsediamento e di immigrazione sicuri e protetti. Siamo fermamente convinti che i rifugiati debbano ricevere parità di trattamento in termini di protezione e assistenza, ed opportunità per il reinsediamento, a prescindere dalla loro religione, nazionalità o razza. Continueremo a impegnarci attivamente e in modo costruttivo con il governo degli Stati Uniti, come abbiamo fatto per decenni, per proteggere coloro che ne hanno più bisogno, e per offrire il nostro sostegno in materia di asilo e migrazione”.
Altrettanto preoccupato il giudizio delle principali comunità religiose americane raccolte nell’Interfaith Immigration Coalition. Oltre 2mila leader religiosi di fedi diverse (evangelici, luterani, metodisti, battisti, cattolici, ebrei e musulmani) hanno firmato un appello al Congresso e a Donald Trump per contestare la politica migratoria chiedendo un «sussulto morale» all’amministrazione e ai politici americani.
“Il programma statunitense per i rifugiati deve rimanere aperto a persone di tutte le nazionalità e religioni che affrontano la persecuzione a causa delle ragioni elencate in base al diritto statunitense. Ci opponiamo a qualsiasi cambiamento che impedirebbe a profughi dalla Siria, Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen, o agli individui che praticano l’islam e le altre religioni, di accedere al programma di reinsediamento dei rifugiati negli Stati Uniti”.
“Siamo chiamati dai nostri testi sacri e dalle nostre tradizioni di fede ad amare il prossimo, ad accompagnare le persone vulnerabili e accogliere con favore lo straniero. Guerre, conflitti e persecuzioni costringono molte persone a lasciare le loro case, creando rifugiati, richiedenti asilo e sfollati in un numero maggiore di qualsiasi altro momento della storia. Più di 65 milioni di persone sono attualmente sfollate nel mondo”.
“Questa nazione – prosegue l’appello – ha l’urgente responsabilità morale di accogliere i rifugiati e richiedenti asilo che si trovano in disperato bisogno di sicurezza. Oggi, con oltre cinque milioni di profughi siriani in fuga dalla violenza e dalla persecuzione e centinaia di migliaia di vittime civili, gli Stati Uniti hanno l’obbligo morale, in quanto nazione leader mondiale, di ridurre la sofferenza e accogliere generosamente i rifugiati siriani nel Paese”.
I leader religiosi ricordano che selezionare i rifugiati in base alla loro nazionalità o religione vìola i principi identitari degli Stati Uniti e contraddice “l’eredità della leadership del nostro Paese, storicamente dimostrata, disonorando la comune umanità”. È invece fondamentale “che gli Stati Uniti restino fedeli al mandato di reinsediare i più vulnerabili, appartenenti a una miriade di religioni ed etnie”.
L’appello si conclude ricordando come “i ‘nuovi americani’ di tutte le fedi” abbiano sempre contribuito alla ricchezza del Paese e come in particolare i rifugiati siano spesso stati “potenti ambasciatori del sogno americano e dei principi fondanti della nostra nazione, come le pari opportunità, la libertà religiosa, libertà e la giustizia per tutti”.
Ma, allora, come interpretare quello che sta avvenendo in America?
Tra le molte analisi proposte in questi giorni colpisce quella di Alia Malek, giornalista e avvocatessa per i diritti civili di origini siriane, affidata alle colonne del Corriere della Sera. La Malek con molta lucidità guida oltre le apparenze e le roboanti affermazioni ideologiche. In realtà il cosiddetto Muslim ban non è un ‘divieto per musulmani’. Non a caso “la nazione con più musulmani al mondo è la Malesia, e non fa parte della lista. Né tantomeno ci sono quei Paesi a maggioranza musulmana dove Trump ha conflitti di interesse”, quali Turchia, Egitto, Arabia Saudita. E non è neppure vero che questi provvedimenti difendano i cristiani, come pure è stato affermato con enfasi. Non solo molti dei fermati siriani sono cristiani ma “se Trump tenesse davvero ai cristiani, saprebbe che l’unico effetto di questo provvedimento è mettere in pericolo i cristiani nel mondo arabo, rinforzando l’idea che la cristianità sia incompatibile con il Medio Oriente”.
Cosa sta veramente accadendo? Il giudizio di Alia Malek è senza appelli: “un rozzo rifiuto dell’ideale di rifugio umanitario, l’abbandono dell’America come luogo di diritti e il consolidamento di un progetto di utilizzo della Casa Bianca per arricchimento personale. Obiettivi che si stanno compiendo grazie alla demagogia di Trump e del suo staff e alla degenerazione del discorso pubblico”. Per fortuna la partita è solo alle prime mosse e le risorse di chi si oppone a questa prospettiva ancora ampie.
Tuttavia il pensiero della Malek ci obbliga a rileggere una pagina di Jeremy Rifkin in cui il sociologo, nato da “gente del West”, fa i conti con i caratteri del “sogno americano”, identificando due precise polarità. La prima “promuove l’autonomia a tutti i costi, il consumo eccessivo, la soddisfazione di ogni appetito, lo spreco dei doni della terra; gli americani incentivano la crescita economica senza vincoli, premiano i potenti e marginalizzano i deboli. Inoltre sono ossessionati dall’idea di proteggere il proprio interesse e hanno costruito la più potente macchina bellica della storia dell’umanità per ottenere quel che vogliono e a cui ritengono di aver diritto: si considerano il popolo eletto e, perciò, meritevole di una quota privilegiata della ricchezza della terra”. Il testo è del 2004 (Il Sogno europeo, Milano, p. 385) eppure rispecchia con assoluta precisione la prospettiva perseguita da Trump, a riprova che il nuovo presidente ha radici antiche.
Per fortuna nello “spirito americano” c’è anche un altro aspetto: “l’America si è aperta ai nuovi venuti, crede che ogni uomo meriti una seconda possibilità nella vita, difende i perdenti e rende gloria alla persona che supera le avversità dell’esistenza e riesce ad aver successo. Gli statunitensi credono che ciascuno sia responsabile della propria vita e che a chiunque si possa chiedere conto di ciò che ha fatto: è questa l’altra faccia dell’individualismo, quella che ancora salva l’America”. Qui non c’è Trump e, se mi è permessa una semplificazione, c’è la cultura di quanti sono scesi in strada per contestare il Muslim Ban, un mondo variegato e colorato fatto di donne, immigrati, minoranze ma anche di professionisti, imprenditori, uomini di finanza.
Allora, se l’analisi è giusta, il presidente Trump non ci pone di fronte a una “mutazione genetica” ma a un nuovo capitolo, certamente in forme inedite, dello scontro tra le due anime dello “spirito americano”. Ancora una volta, per usare le parole di Rifkin, il Sogno Americano mette in scena la lotta tra il suo “istinto di morte” e un grande “senso di responsabilità personale” capace, a volte, di “indicare la strada al mondo”.