Il 17 novembre è stato presentato, presso la sede della CGIL a Roma, il Rapporto sui Diritti Globali 2015 che ha per titolo “Il nuovo disordine mondiale”. La pubblicazione è curata dall’Associazione SocietàINformazione e promosso dalla Cgil con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente. Il documento è giunto alla tredicesima edizione. Il Rapporto sui diritti globali è uno studio annuale, unico a livello internazionale, che analizza i processi connessi alla globalizzazione e alle sue ricadute, sotto i vari profili economici, sociali, geopolitici e ambientali, osservati in un’ottica che vede i diritti come interdipendenti. (leggi l’articolo)
L’Associazione SocietàINformazione è una Onlus costituita a Milano nel 2001 che ha tra i propri scopi il sostegno e l’intervento sui temi dei diritti umani, dell’ambiente e dei vari settori dell’esclusione sociale.
In questo quadro, l’Associazione ha promosso e gestisce un Centro Studi che ha ideato il Rapporto sui diritti globali e che dal 2003 lo realizza attraverso la propria redazione attualmente composta da Orsola Casagrande, Antonio Chiocchi, Roberto Ciccarelli, Monica Di Sisto, Valerio Renzi, Susanna Ronconi, Alberto Zoratti, Sergio Segio.
Nel 2015 hanno contribuito con interviste e interventi Gilbert Achcar, Danilo Barbi, Marco Bellingeri, Giuseppe Bronzini, Francesca Chiavacci, Luigi Ciotti, Marco De Ponte, Monica Di Sisto, Federica Ferrario, Samara Jones, Stefano Liberti, Christian Marazzi, Bálint Misetics, Giuseppe Onufrio, Mauro Palma, Felice Roberto Pizzuti, Cécile Toubeau.
La prefazione, dal titolo Riprendere la via di una crescita sostenibile è di Susanna Camusso, mentre l’introduzione –Torniamo umani. Tra muri, guerre, memorandum e diseguaglianze – è scritta da Sergio Segio che ha coordinato la stesura del Rapporto 2015 . Il volume è pubblicato dalla Casa editrice Ediesse di Roma.
Proponiamo ai nostri lettori uno stralcio dell’Introduzione di Sergio Segio dedicato a “Le guerre alimentari. Necro-economie, TTIP, Land grabbing ed Expo 2015”.
L’altro, potente, fattore che mette in moto le genti, spingendole ad abbandonare i propri luoghi, difatti, è il venir meno delle condizioni minime di sopravvivenza; a loro volta determinate dall’enorme crescita delle diseguaglianze, dall’impoverimento progressivo di quote crescenti di popolazioni, dalla desertificazione dei territori dovuta al climate change o, se fertili e produttivi, dalla loro acquisizione da parte di altri Stati o imprese multinazionali attraverso il cosiddetto Land grabbing. Tutti aspetti, direttamente o indirettamente, riconducibili alla globalizzazione neoliberista.
Quello del riscaldamento climatico è problema, oltre che connesso, altrettanto epocale di quello delle migrazioni. Come ha ammesso il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, prima di ospitare la COP21, il summit delle Nazioni Unite sul clima del dicembre 2015: «È un negoziato vitale. Se non agiamo subito ci saranno conseguenze devastanti. Non centinaia di migliaia, ma milioni di persone saranno costrette a fuggire a causa di siccità, carestie, inondazioni, guerre. Superata una certa soglia del riscaldamento climatico, stimata ai 2 gradi per questo secolo, il fenomeno diventerà irreversibile» (“La risposta alla crisi dei migranti non è la chiusura delle frontiere. Bisogna porre fine al conflitto in Siria”, intervista a cura di Anais Ginori, “la Repubblica”, 22 settembre 2015).
Se pure i governanti più illuminati, o meno assoggettati al potere delle lobby, hanno preso coscienza della gravità e urgenza della questione climatica, non sembrano tuttavia comprendere quello che i movimenti ambientalisti hanno sostenuto con forza già nelle COP precedenti: System Change not Climate Change. Per salvare il pianeta, occorre cambiare il sistema, c’è bisogno di misure radicali, di quella conversione ecologica invocata persino da Papa Francesco. Il quale, nella sua enciclica, con parole diverse ha espresso lo stesso concetto: «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo» (Papa Francesco, Laudato si’ – Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, 2015).
Che non bastino le politiche dei piccoli passi e non sia più sopportabile la difesa accanita degli interessi legati ai sistemi di produzione e alle energie inquinanti, del resto, lo dice la drammaticità dei numeri: secondo la stima del World Watch Institute, tra il 2008 e il 2013 le persone che hanno dovuto spostarsi in altre aree o Paesi a causa dei disastri ambientali e climatici sarebbero state circa 140 milioni (State of the world 2015). Per il solo 2014, il citato Rapporto 2015 sulla Protezione Internazionale quantifica gli sfollati per motivi legati ai disastri ambientali in circa 22,4 milioni di persone.
Ma che analisi severe sui guasti umani, sociali e ambientali arrivino dal Papa, per giunta alla vigilia del suo viaggio negli Stati Uniti nel settembre 2015, seconda tappa dopo l’incontro con Fidel e Raúl Castro a Cuba, ha dato molto fastidio a repubblicani e conservatori, che non gli hanno lesinano critiche, arrivando ad accusarlo di essere comunista. Tanto che il pontefice è stato costretto a replicare: prima scherzando, dicendo che, se serve, può recitare il Credo; poi seriamente, ricordando che quanto ha detto e scritto a più riprese in materia economica non è nient’altro di quel che afferma la dottrina sociale della Chiesa. E, per nulla intimorito dalle critiche, nel suo discorso davanti al Congresso statunitense a Camere riunite, il 24 settembre, ha approfittato per esortare all’abolizione della pena di morte, all’impegno contro il cambiamento climatico, alle politiche di accoglienza per gli immigrati, alla cessazione della vendita di armi, alla lotta alle diseguaglianze. Naturalmente, è stato calorosamente applaudito da tutto il Congresso, probabilmente anche dai senatori e deputati di riferimento della strapotente lobby delle armi e dai tanti sostenitori della pena capitale.
Lo stesso è avvenuto il giorno seguente davanti ai plaudenti rappresentanti delle Nazioni Unite, allorché il Papa ha affermato che i governanti devono garantire casa, lavoro, terra e libertà per tutti.
I movimenti, invece, riconoscono appieno e davvero le cose che Papa Francesco va sostenendo: «Quando il Papa afferma che il sistema economico capitalista è un sistema opprimente e colpevole, causa di ingiustizie sociali e portatore di guerra, che i Paesi poveri non dovrebbero essere ridotti a fornitori di materie prime e manodopera a basso costo per i Paesi sviluppati, che la difesa dell’ambiente è un tema principale dell’agenda politica e per cui fare pressioni, quello che sento sono gli stessi concetti che Occupy Wall Street va ripetendo da quattro anni», ha dichiarato Justin, un militante della prima ora di Zuccotti Park (Marina Catucci, Occupy rivendica «Bergoglio anticapitalista», “il manifesto”, 23 settembre 2015). Ciò non significa che il Papa sia comunista, come del resto non lo sono molti degli attivisti altermondialisti; semplicemente vuol dire che entrambi usano parole di verità ed esprimono analisi non addomesticate, che portano a chiedere cambiamenti radicali.
Il Land grabbing è un fenomeno in rapida crescita, con un numero di accordi conclusi aumentato di quasi il 30 per cento in poco più di un anno, passando da 755 nel giugno 2013 a 956 nel settembre 2014. L’appropriazione delle terre aggredisce non solo l’Africa, l’Asia o l’America Latina ma anche l’Europa e, assieme alla liberalizzazione dei mercati, provoca il fallimento della piccola agricoltura; in Italia, ad esempio, quasi dimezzata nel breve volgere di un ventennio. Questione sempre più grave, tenuto conto che attualmente, a livello mondiale, il 70 per cento del cibo consumato è prodotto dall’agricoltura su piccola scala; solo il 30 per cento dall’agricoltura industriale, che, viceversa, è responsabile del 75 per cento del danno biologico a carico del pianeta, compresa l’emissione, attraverso l’impiego di combustibili fossili, del 40 per cento dei gas serra, causa del riscaldamento climatico. Le Nazioni Unite hanno calcolato che, già vent’anni fa, il sistema agricolo industriale aveva provocato l’estinzione di più del 75 per cento della biodiversità presente in agricoltura. Si stima che oggi il numero delle specie vegetali estinte sia arrivato addirittura al 90 per cento (Vandana Shiva, Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del terzo millennio, Feltrinelli, 2015).
Sulla questione alimentare si confrontano, anzi si scontrano, due paradigmi: l’agricoltura delle multinazionali, che appunto si appropriano di intere regioni e le avvelenano con uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti e che vogliono imporre ovunque gli Organismi Geneticamente Modificati, e quella dei piccoli contadini, che coltivano nel rispetto dell’ecosistema e delle biodiversità.
Il primo paradigma, quello dell’agricoltura industriale è, propriamente, di guerra: «usa le stesse sostanze chimiche in precedenza utilizzate per sterminare persone e distruggere la natura. Si fonda sul principio secondo cui insetti e piante sono nemici da sterminare con i veleni ed è continuamente alla ricerca di nuovi, e più micidiali, strumenti di violenza, tra cui pesticidi, erbicidi, piante geneticamente modificate», scrive Shiva, che ricorda anche le origini di tale sistema: «Nel corso della Seconda guerra mondiale, alcune grandi imprese hanno accumulato enormi profitti sulla morte di milioni di persone. Finita la guerra, tutto un settore industriale cresciuto e rafforzatosi producendo esplosivi e prodotti chimici da usare nel conflitto (inclusi i campi di concentramento) si è trasformato in industria agro-chimica. Dovendo decidere se chiudere i battenti o “reinventarsi”, le fabbriche di esplosivi hanno cominciato a produrre fertilizzanti sintetici, e le sostanze chimiche concepite per la guerra sono state impiegate come pesticidi ed erbicidi. Il fondamento dell’agricoltura industriale è l’impiego di veleni, e il sistema dell’agricoltura industriale è una forma di necro-economia: i suoi profitti affondano le radici nella morte e nella distruzione».
Anche quella per il cibo, e per l’acqua, insomma, è una forma di guerra derivata da quella tradizionale e, a sua volta, fonte di conflitti bellici attuali. Un tema già indagato dal sociologo ambientalista filippino Walden Bello (Le guerre per il cibo, Nuovi Mondi, 2009) e che significativamente dà il titolo al 5° Rapporto sui conflitti dimenticati, curato da Caritas Italiana in collaborazione con le riviste “Famiglia cristiana” e “il Regno”, che approfondisce i nessi tra eventi bellici e beni alimentari (Cibo di guerra, edizioni Il Mulino, 2015).
Questo nuovo studio è stato presentato, nel settembre 2015, a Milano nell’ambito di Expo. Vale a dire di un’opera – dall’ingannevole titolo Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita – alla quale sono stati sacrificati milioni di metri quadrati di suoli agricoli fertili. Un evento che il fondatore di Slow Food e organizzatore di Terra madre, Carlo Petrini, pur partecipandovi, ha definito «il trionfo del capitalismo» e «una grande fiera dove le nazioni e i grandi potentati alimentari si confrontano » (“il manifesto”, 6 giugno 2015). Prova ne sia che dalla Carta di Milano, il documento che dichiara di voler rappresentare «l’eredità culturale di Expo Milano 2015», sono scomparsi temi come il Land grabbing e la speculazione finanziaria sul cibo e sulle materie prime.
Insomma, Expo 2015 è stato la celebrazione del paradigma agro-industriale, quello che sta avvelenando e impoverendo il pianeta senza neppure apportare benefici occupazionali. Anzi: basti guardare all’esempio di Genagricola (di cui si parla qui, nel quarto capitolo), la divisione agricola della compagnia assicurativa italiana Le Generali, che controlla 4500 ettari in Romania impiegando poco più di una sessantina di persone.
Il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) – cui è dedicato il Focus del quarto capitolo di questo Rapporto – costituisce una decisa accelerazione di questo processo, così come gli altri trattati commerciali e di liberalizzazione degli investimenti e dei servizi (TTP, tra Stati Uniti, Canada e diversi Paesi asiatici; CETA, tra Canada e Unione Europea; TiSA, liberalizzazione dei servizi). La guerra commerciale in corso è uno dei risvolti dei posizionamenti geopolitici, tesa a rafforzare la predominanza del blocco occidentale nei confronti dei BRICS e, allo stesso tempo, a consolidare il potere delle tecnocrazie mondiali, a detrimento delle sedi decisionali politiche e democratiche.