Il direttore del nostro portale Antonella Luccitti ha già scritto quanto necessario in merito al nuovo dossier di Amnesty International “Hotspot Italia: come le politiche dell’Unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti”(leggi l’articolo). Ulteriori notizie i lettori di Felicità Pubblica potranno trovarle nella Sintesi allegata e, soprattutto, nel testo integrale del Rapporto (scarica il rapporto).
A me resta solo il compito di proporre una breve riflessione sulle reazioni che hanno accompagnato la denuncia di Amnesty. Impossibile non partire dalle dichiarazioni rilasciate da Mario Morcone, capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione presso il Ministero dell’Interno. “Che le forze di polizia operino violenza sui migranti è totalmente falso. Sono rimasto sconcertato nel leggere queste cretinaggini. Amnesty costruisce i suoi rapporti a Londra, non in Italia”.
La seconda è quella di Felice Romano, segretario generale del SIULP Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia. “Migliaia sono ormai i casi, anche noti grazie ai riflettori della stampa che vedono ogni giorno, in ogni ora donne e uomini della Polizia di Stato, delle Forze dell’Ordine in generale oltre che delle associazioni del volontariato adoperarsi per prestare soccorso e assistenza agli immigrati che arrivano in Italia. Ed è proprio la straordinaria ordinarietà di queste persone che oggi il nostro Paese è visto come esempio di rigore nel rispetto delle regole che presiedono gli spostamenti delle persone tra i continenti ma anche di modello di accoglienza da imitare e esportare in tutti i continenti. Accuse di questo tipo, basate su dichiarazioni anonime, feriscono e offendono non solo i poliziotti ma l’intera nazione per la straordinaria capacità e il sacrificio che quotidianamente si fa per prestare assistenza e accoglienza. Ecco perché ci amareggia, ci sorprende e appare paradossale che un’organizzazione come Amnesty International possa dare credito a delazioni anonime di persone che riferiscono di presunti abusi negli hotspot senza fare alcun riscontro mentre ben altre sono le direzioni nelle quali dovrebbe ricercare il rispetto dei diritti umani degli immigrati che approdano sulle nostre coste”.
A ragione Romano afferma che le forze dell’ordine sono quotidianamente impegnate in uno straordinario lavoro di “assistenza e di accoglienza”. Il rapporto di Amnesty non solo ne dà ampiamente merito ma ricorda come “non ci siano dubbi che la maggior parte degli agenti di polizia abbia continuato a fare il proprio lavoro in modo impeccabile”. Tuttavia non è di questo che si tratta. Nessuno vuole ferire e offendere “i poliziotti” e tanto meno “l’intera nazione”: si chiede soltanto di fare luce su episodi gravi di cui si forniscono precisi elementi di valutazione.
Davvero strana la dichiarazione di Morcone. In sole due righe il capo del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, già direttore dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, candidato sindaco del PD a Napoli nel 2011 e capo di gabinetto del Ministro Andrea Riccardi durante il Governo Monti, riesce a denigrare il lavoro di Amnesty, attribuire all’organizzazione posizioni mai sostenute, sottrarsi ai più elementari doveri di verifica sulla veridicità di quanto denunciato.
Perché di fronte a qualsiasi tipo di critica scatta immediata la difesa corporativa piuttosto che la verifica puntuale dei fatti? Perché non si considera che la miglior difesa degli interessi di un qualsiasi gruppo consiste nell’accertarsi che tutti i suoi componenti abbiano operato in modo corretto? Naturalmente saremmo assolutamente lieti che le denunce di Amnesty si dimostrino infondate o, quanto meno, enfatizzate. In ogni caso sia le dichiarazioni del Siulp sia quelle del Viminale fanno tornare alla memoria analoghe affermazioni dopo i fatti della scuola Diaz durante il G8 di Genova. E tutti sappiamo come è andata a finire.
Al contrario, orgogliosi del fantastico lavoro del nostro Paese per salvare la vita dei profughi in mare, dovremmo evitare con grande attenzione che qualcuno possa “macchiare” l’impegno di tante donne e uomini delle istituzioni e del volontariato.
Ci fa ben sperare, in questa direzione, quanto affermato dal Garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Ricevendo i rappresentanti di Amnesty ha assicurato che “quanto denunciato sarà oggetto di controllo, verifica e vigilanza, come avviene per ogni segnalazione di violazione dei diritti o di criticità di cui il Garante Nazionale viene a conoscenza. Finora, nel corso delle missioni e delle ispezioni effettuate negli hotspot, il Garante Nazionale non ha avuto riscontri di violenze, come invece denunciato da Amnesty sulla base delle dichiarazioni di alcuni migranti. Sarà nostro compito verificare in maniera ancora più mirata la rispondenza alla realtà della situazione denunciata, proseguendo nel nostro lavoro di Garante delle persone private della libertà e di monitoraggio dei rimpatri forzati dei migranti”.
Sintesi
Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, in fuga da conflitti, violazioni dei diritti umani e povertà, negli ultimi tre anni hanno attraversato il Mediterraneo in cerca di un luogo sicuro o di una vita migliore. In assenza di canali sicuri e legali di accesso all’Europa, hanno viaggiato in maniera irregolare, con un considerevole rischio per le loro vite. Questi flussi hanno presentato sfide importanti ai leader europei, che non sono stati affatto in grado di affrontarle. Hanno lasciato un onere particolarmente pesante sulla Grecia, ma anche sull’Italia, che ha guidato gli sforzi per salvare vite in mare e ha visto oltre 150mila arrivi irregolari all’anno, in ciascuno degli ultimi tre anni. Invece di creare un sistema coraggioso e organizzato per fornire canali sicuri alle persone per cercare protezione in Europa e sostenere il rispetto e la difesa dei diritti umani nei paesi dove conflitti e persecuzioni inducono le persone a fuggire, i leader europei sono ricorsi a negoziati con i governi che violano i diritti umani per impedire a queste persone di arrivare. Invece di promuovere la solidarietà tra gli stati membri dell’Unione europea (Ue), i governi hanno investito tempo e risorse preziosi per proteggere i loro confini nazionali e ridurre lo spazio per la protezione di persone vulnerabili e spesso traumatizzate, che hanno messo a rischio le loro vite per arrivare in Europa. L’“approccio hotspot”, le cui conseguenze vengono analizzate in questo rapporto, rappresenta molti di questi fallimenti.
L’approccio hotspot è stato presentato a metà del 2015, come la principale risposta dell’Ue all’alto numero di arrivi nei paesi del sud Europa. Con i leader europei incapaci di pianificare nel tempo a disposizione, e tanto meno di concordare, una necessaria riforma del sistema d’asilo in crisi dell’Ue, l’approccio hotspot ha rappresentato sostanzialmente un rattoppo. La sua premessa fondamentale era quella di associare maggiori controlli sui rifugiati e migranti all’arrivo, con la distribuzione di una parte dei richiedenti asilo in altri stati membri per un esame successivo delle loro domande di asilo. Controllo e condivisione delle responsabilità erano allora le parole chiave. Dopo un anno, è chiaro che solo il controllo è stato messo effettivamente in atto, e a caro prezzo per i diritti di rifugiati e migranti, mentre molti pochi progressi sono stati fatti in materia di condivisione delle responsabilità; e anzi questo principio sta incontrando una crescente resistenza a livello politico.
L’approccio hotspot non è stata un’idea italiana. L’allestimento dei centri, o “hotspot”, e l’attuazione dell’approccio hotspot sono stati raccomandati dalla Commissione europea a maggio 2015, come punto centrale della sua Agenda sulla migrazione,1 e decisi dal Consiglio Ue a giugno 2015.2 Gli hotspot sono stati progettati per fornire un luogo in cui i rifugiati e i migranti arrivati irregolarmente potessero essere identificati velocemente, principalmente attraverso il rilevamento obbligatorio delle impronte digitali, esaminati per individuare necessità di protezione e in seguito selezionati al fine dell’esame delle richieste di asilo o del rimpatrio nei loro paesi d’origine. Una drastica diminuzione degli spostamenti irregolari di rifugiati e migranti verso altri stati membri dell’Ue, uno degli obiettivi chiave, doveva essere raggiunto tramite l’acquisizione delle impronte digitali, nella prospettiva di assicurare la possibilità di un loro rinvio, secondo il Regolamento Dublino, verso l’Italia o altri paesi di primo ingresso. Per ridurre il peso che grava su questi stati, tuttavia, a settembre 2015 è stato adottato un sistema di ricollocazione d’emergenza, che prevede il trasferimento progressivo di circa 160mila richiedenti asilo (di cui 40mila dall’Italia) verso altri paesi Ue, per esaminare lì le loro richieste di asilo. 3 Il governo italiano ha cominciato ad attuare l’approccio hotspot nello stesso mese, con la trasformazione in hotspot del centro di prima accoglienza già esistente a Lampedusa e il dispiegamento di funzionari di diverse agenzie dell’Ue.
Mentre la componente di solidarietà del piano hotspot si è dimostrata ampiamente illusoria – con solo 1196 persone ricollocate in altri paesi europei dall’Italia, sui 131mila arrivi a fine settembre 2016 – 4 gli elementi repressivi, concepiti per prevenire spostamenti verso altri paesi europei e aumentare il numero dei rimpatri, sono stati attuati in modo aggressivo, con elevati costi in termini di diritti umani. Un anno dopo l’avvio ufficiale dell’approccio hotspot in Italia, è chiaro come sia servito principalmente a riaffermare il sistema di Dublino, aumentando piuttosto che riducendo il peso sulle spalle dei paesi di primo arrivo nel controllare i confini, proteggere i richiedenti asilo e tenere fuori i migranti irregolari. Mentre il numero degli arrivi in Italia è rimasto stabile, l’imposizione dell’approccio hotspot ha infatti portato a un drastico aumento delle persone che richiedono asilo in Italia, mettendo a dura prova la capacità delle autorità di assistere in modo adeguato i nuovi arrivati.
La ricerca di Amnesty International offre un quadro preoccupante: la riaffermazione di vecchi principi con modalità più aggressive sta portando a un aumento delle violazioni dei diritti umani – per le quali le autorità italiane hanno una responsabilità diretta, ma i leader dell’Ue hanno una responsabilità politica.
Nel cercare di raggiungere “un tasso di identificazione del 100%”, l’approccio hotspot ha spinto le autorità italiane ai limiti, e oltre, di ciò che è ammissibile secondo il diritto internazionale dei diritti umani. L’attuazione di misure coercitive per costringere le persone che non vogliono fornire le loro impronte digitali è diventata man mano la regola, attraverso la detenzione prolungata e l’uso della forza fisica. È in questo scenario che rifugiati e migranti che non volevano dare le impronte digitali hanno subito detenzioni arbitrarie e maltrattamenti da parte della polizia. Nonostante non ci siano dubbi che la maggior parte degli agenti di polizia abbia continuato a fare il proprio lavoro in modo impeccabile, testimonianze coerenti raccolte da Amnesty International indicano che alcuni hanno fatto uso eccessivo della forza e hanno fatto ricorso a trattamenti crudeli, disumani o degradanti, o addirittura alla tortura.
L’approccio hotspot ha anche richiesto l’introduzione di uno screening anticipato e rapido dello status di tutte le persone sbarcate nei porti italiani, per separare quelle considerate “richiedenti asilo”, da quelle ritenute “migranti irregolari”. Un processo di screening non fondato su alcuna legislazione e fatto con troppa fretta – quando le persone sono ancora troppo stanche o traumatizzate dal viaggio per poter prendere parte in modo consapevole a questo processo, e prima che abbiano avuto la possibilità di ricevere informazioni adeguate sui loro diritti e sulle conseguenze legali delle loro dichiarazioni – rischia di negare a coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni l’accesso alla protezione alla quale hanno diritto.
Infine, l’enfasi posta dalle istituzioni e dai governi europei sul bisogno di aumentare le espulsioni ha portato a due sviluppi critici in Italia. Migliaia di ordini di lasciare il territorio nazionale sono stati consegnati a persone considerate “migranti irregolari”, in seguito allo screening viziato menzionato sopra. Queste persone in pratica non hanno alcuna possibilità di ottemperare all’ordine, anche se volessero, a causa della mancanza di documenti e di soldi. Di conseguenza, sono rimaste nel paese ma senza alcuna forma di assistenza, vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi. Le autorità italiane hanno inoltre negoziato nuovi accordi bilaterali, anche con governi responsabili di orribili atrocità, come il governo sudanese. Sulla base di questi accordi, gruppi di persone considerate “migranti irregolari”, ancora una volta in base a un processo di screening viziato e senza un’adeguata valutazione dei rischi che il loro rimpatrio comportava, sono stati rimandati verso paesi nei quali erano a rischio di maltrattamenti e altre gravi violazioni dei diritti umani.
L’Italia deve ora agire per mettere fine a tali violazioni dei diritti umani e assicurare l’accertamento delle responsabilità. Gli agenti di polizia hanno bisogno di istruzioni chiare sull’uso consentito della forza e deve essere assolutamente inequivocabile che l’uso della forza consentito è minimo. La resistenza prolungata deve essere gestita attraverso altre forme di risposta da parte delle forze di polizia, non con un maggiore uso della forza. Il monitoraggio di questa procedura deve essere rafforzato e le accuse di abusi devono essere indagate a fondo.
Le Procedure operative standard (Standard Operating Procedures – Sop) applicabili negli hotspot devono essere riviste per assicurare che nessuno screening avvenga immediatamente dopo lo sbarco e che tutte le persone in arrivo abbiano accesso a informazioni sufficienti prima dell’esame della loro situazione.
Infine, i provvedimenti di espulsione devono essere motivati e basati su valutazioni individuali, per garantire che nessuno venga rimandato in paesi nei quali sia a rischio di gravi violazioni dei diritti umani, anche se non ha fatto richiesta di asilo. L’Italia deve inoltre smettere di negoziare e applicare accordi di riammissione con governi responsabili di persecuzioni diffuse e gravi violazioni dei diritti umani laddove tali accordi non prevedano garanzie che assicurino che i rimpatriati non saranno a rischio di gravi violazioni dei diritti umani.
Le istituzioni e i governi europei hanno un compito più ampio. Anche loro devono assumersi delle responsabilità e favorire un cambiamento che promuova e difenda i diritti umani, invece di minacciarli. Le sfide attuali devono essere affrontate con misure nuove e coraggiose, compresa una revisione del sistema di Dublino che abbandoni il criterio del paese di primo ingresso – motivo principale per cui le persone si oppongono al rilevamento delle impronte digitali – e l’impostazione di un nuovo sistema che preveda un’effettiva redistribuzione dei richiedenti asilo appena arrivati in tutta Europa, garantisca che il livello di protezione e assistenza per i richiedenti asilo sia lo stesso in tutta la regione e permetta alle persone che hanno ottenuto protezione in un paese dell’Ue di muoversi liberamente in tutta l’Ue. Amnesty International ritiene anche che una riduzione significativa del numero di persone che intraprendono la pericolosa traversata del Mediterraneo centrale – e quindi una riduzione sia dei morti in mare sia degli spostamenti irregolari all’interno dell’Europa – può e deve essere ottenuta attraverso l’apertura di canali sicuri e regolari, che forniscano alle persone e alle famiglie a rischio di gravi violazioni dei diritti umani la possibilità di trovare un luogo sicuro senza mettere a rischio le loro vite.