Il 2015, con la sua conta impietosa di morti, ha spiegato in maniera molto eloquente che difendere l’ambiente, in molti casi, significa mettere a rischio la propria vita. Lo si evince dai numeri: durante l’anno passato sono state uccise 185 persone perché lottavano per i diritti della propria terra, mai prima la somma era stata così alta.
Questo è quanto messo in luce dall’ong internazionale Global Witness che ha di riflesso titolato il suo rapporto senza badare a fronzoli “On Dangerous Ground”, proprio a voler indicare l’ambiente come il terreno di guerra per i diritti umani.
Tra il 2014 e il 2015 le vittime di omicidi ambientali sono cresciute fino al 60%, trovando la morte in zone che non appaiono casuali tra villaggi lontani dalla civiltà, all’interno delle foreste, insomma in tutti quei luoghi dove è più semplice smarrire la tracciabilità di quel che si sta compiendo e contemporaneamente è più facile minacciare interi gruppi di persone che tacciono per timore di ritorsioni. Dal report, il Paese che risulta detenere il primato per numero di vittime è il Brasile con 50 omicidi, cui seguono le Filippine con 33 decessi e la Colombia che ne ha registrati 26. Prevedibilmente, stiamo parlando di tre Paesi ricchi di materie prime, luoghi soggetti a deforestazioni e speculazioni di ogni genere nell’ambito della corsa all’approvvigionamento di minerali e legname prima di tutto. Stando a quanto scritto da Global Witness, non sono un’isola di pace il Messico, l’India, l’Indonesia, il Perù, il Nicaragua, il Congo, il Guatemala e le Honduras.
Billy Kyte, attivista dell’Organizzazione, dichiara qualcosa di inquietante. Dice testualmente: «Una delle principali ragioni dietro il grande aumento degli omicidi è l’impunità, le persone sanno che possono farla franca con questi crimini». Infatti, il rapporto spiega il criminoso rapporto esistente tra Stati e interessi aziendali e documenta 16 responsabili accertati legati a gruppi parlamentari, 13 personaggi facenti parte dell’esercito, 11 uomini della polizia e il restante numero appartenente a organizzazioni di sicurezza privata.
Inoltre, esiste un’aggravante: la tendenza da parte dei governi – in particolare succede in Africa – a etichettare le azioni e le proteste degli attivisti ambientali come comportamenti contrari allo sviluppo e alla crescita. Un alibi somministrato alle masse popolari per portare a termine indisturbati i propri interessi commerciali. Le previsioni per il futuro che fa Billy Kyte sono raggelanti: «Si tratta di una crisi in rapida crescita che sta mostrando segni di cedimento. Il riscaldamento climatico e la popolazione in aumento faranno sì che le pressioni sulla Terra e le risorse naturali aumentino; il che significa che senza un intervento urgente, il numero di morti che stiamo vedendo ora sarà nulla in confronto a quello che verrà in futuro».