Una pietra angolare per l’innovazione sociale

A volte può essere utile fare qualche passo indietro e cercare un punto fermo da cui ripartire. Nella ricerca ancora in corso sull’innovazione sociale il Libro bianco di Robin Murray, Julie Caulier Grice e Geoff Mulgan, pubblicato nel 2009 in Inghilterra, rappresenta una pietra angolare. Come dichiarato dagli stessi autori il libro “raccoglie le innumerevoli strategie attraverso cui le persone stanno cercando e creando nuove e sempre più effettive risposte alle più grandi sfide dei nostri tempi: come ridurre le emissioni di Co2, come mantenere le persone in salute, come mettere fine alla povertà”. Un approccio pragmatico e dal basso: “sono qui descritti i metodi e gli strumenti per l’innovazione impiegati nelle diverse culture e nei diversi settori, il settore pubblico come quello privato, la società civile come quella più intima del nucleo familiare, tutti ricondotti a un unico terreno comune, ovvero quello dell’economia sociale, dell’imprenditoria e delle iniziative sociali”. Vi proponiamo, di seguito, il testo dell’Introduzione all’edizione italiana disponibile in download, curata da Alex Giordano e Adam Arvidsson (2013), che fornisce al lettore una sorta di contestualizzazione alle condizioni della società italiana. Forse qualche argomentazione potrà risultare datata ma l’insieme della riflessione ci sembra mantenere piena attualità.

INTRODUZIONE

La necessità dell’innovazione sociale

Siamo abituati a pensare l’innovazione, quella vera, come qualcosa che avviene nelle università e dentro i laboratori delle grandi società. È lì che i veri scienziati sono al lavoro, con i loro saperi avanzati e competenze esclusive, per sfornare nuovi prodotti – macchine, lavatrici, aspirapolveri che portano nuovi benefici per tutti. Alle questioni sociali ci pensa lo stato, con i suoi servizi sociali, il sistema sanitario, le politiche economiche e di sviluppo. A fare pressione sullo stato ci pensano le organizzazioni politiche: partiti, sindacati e movimenti sociali, che sottolineano le cose che non vanno, o che vanno male e che, di conseguenza necessitano un intervento. E le tre sfere rimangono nettamente separate.

Nel mondo, ma forse particolarmente in Italia è palese che le cose non funzionino più così. Prima di tutto, l’innovazione commerciale non è più unicamente una questione riguardante nuovi prodotti e nuovi beni di consumo. Infatti, gran parte delle innovazioni che hanno veramente fatto la differenza negli ultimi anni, sono state innovazioni sociali: media sociali come Facebook che permettono nuovi modi di relazionarsi, organizzare progetti e stare insieme; piattaforme come Iphone che aggregano una pluralità di servizi e li integrano in uno strumento solo diventando così parte integrata della vita quotidiana. Inoltre, molte di queste innovazioni sociali, e anche importanti innovazioni tecniche, specialmente nel campo del software, non sono più il prodotto esclusivo di grandi società e centri di ricerca, ma incorporano la quotidiana creatività di piccole imprese, comunità produttive auto-organizzate, e persino individui che adesso più facilmente riescono a mettersi in contatto fra simili e collaborare (basti pensare, per esempio, alle molte comunità di sviluppatori di Free o Open Source Software). Le grandi società multinazionali hanno scoperto il potenziale di questa nuova innovazione socializzata, e cercano di catturarlo in schemi di open innovation o user-led designer.

Allo stesso tempo però, si diffonde la percezione che l’economia corporativa spesso agisca come un blocco all’innovazione, rafforzando il controllo sui saperi comuni con brevetti e altre forme di proprietà intellettuale; oppure che la direzione dell’innovazione promossa delle grandi società non è più quella giusta. Abbiamo veramente bisogno di modelli di automobili ancora più raffinati, di hamburger Mcdonald al pecorino o di nuove collezioni Dolce & Gabbana che solo minimamente si differenziano da quelle dell’anno scorso? Non sarebbe meglio investire di più sulle energie alternative o le automobili elettriche? Ma soprattutto, vale ancora la pena pagare un conto sempre più salato in termini di distruzione ambientale e ineguaglianza sociale, a causa di una continua espansione dei piacere consumistici, in sé sempre meno eccitanti?

Quanto allo stato, almeno quello italiano, pare palesemente incapace di risolvere, o anche solo interessarsi ai problemi sociali del paese che peraltro si fanno sempre più gravi: disoccupazione giovanile, precarietà economica e esistenziale, mancanza di servizi, montagne di immondizia e degrado ambientale. Per quanto riguarda l’innovazione, anche quella tecnologica e commerciale, l’Italia manca di un sistema di ricerca e sviluppo nazionale, e gli istituti di ricerca che rimangono stanno per chiudere, anche quelli di eccellenza internazionale. L’unica innovazione sociale viene fatta da piccole imprese che lavorano in modo individuale, indipendenti dal sistema. Per questo, secondo WIPO (World Intellectual Property Organization) l’Italia produce tanti brevetti quanto la Svizzera, ma con una popolazione quasi nove volte più grande.

Questa situazione di stasi è però solo apparente. Dietro la passività delle strutture economiche e politiche di questo paese sembra emergere una nuova ondata di creatività e energia, particolarmente fra le generazioni più giovani, quelli sotto i quarant’anni. Molti di questi sono cresciuti nel nuovo ambiente informatico di cui internet e i social media diventano parte integrante della vita quotidiana, e sono perciò abituati a nuovi modi di trovare informazioni, di mettersi in contatto con altri e collaborare. Molti hanno vissuto a lungo all’estero, per scelta o necessità, e sono stati in contatto con quelle nuove forme di socialità che si sviluppano in centri creativi come Londra, New York o San Francisco. Sono coloro i quali hanno vissuto la fine delle grandi ideologie, dei movimenti sociali, e della politica di scontro; e hanno sviluppato un approccio più pragmatico all’azione politica, enfatizzando l’intervento concreto e contingente. Molti hanno passato qualche anno nel mondo corporativo, inseguendo una carriera manageriale, e si sono rotti le scatole scoprendo la natura di quel mondo e le scarse possibilità che offre, non solo in termini di autorealizzazione, ma anche etici, e cioè riguardanti la possibilità di dare un contributo positivo al mondo che ci circonda. Queste generazioni concepiscono l’innovazione sociale come un nuovo modo di fare impresa nel senso classico/umanistico del termine, e cioè di intraprendere un progetto che fa la differenza.

Il termine innovazione sociale può avere molti sensi. Infatti può significare semplicemente un’innovazione socializzata che crea nuovi sapere tecnici o organizzativi; ma anche un’innovazione sociale, ossia un approccio pragmatico ai problemi sociali, che applica tecniche manageriali per risolvere problemi nel presente, senza badare molto all’orizzonte ideologico o alla correttezza politica. Innovazione sociale implica anche l’impiego di nuove tecnologie e soprattutto di nuove forme organizzative, dove l’organizzazione dal basso convive con una ‘socialità di rete’ e dove le stesse relazioni sociali diventano strumenti da mobilizzare nell’attività imprenditoriale; dove nel bene e nel male le differenze fra vita lavorativa, vita politica e vita privata tendono a scomparire. In questo senso innovazione sociale comporta un nuovo modo di organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno politico, un modo dove – per usare la terminologia di Hannah Arendt – le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica e non morale.

Quindi, e soprattutto, l’innovazione sociale è un candidato promettente per una necessaria riorganizzazione delle relazioni produttive e sociali. Noi siamo in un periodo di crisi e di stasi. Questa crisi si deve in gran parte alla nostra incapacità di creare una struttura sociale adatta a sfruttare la produttività delle tecnologie d’informazione e comunicazione. E’ dagli anni settanta che le fabbriche sono robotizzate, ma producono sempre le stesse cose, ed è dagli anni novanta che abbiamo internet, ma rimane in gran parte un medium pubblicitario. Siamo ancora dentro al paradigma consumistico, quello nato negli anni trenta come risposta a una crisi, essenzialmente a una crisi di sovrapproduzione industriale. Ma la nostra crisi è un’altra crisi: il paradigma consumistico non solo non può contenere la nuova produttività che risulta da processi produttivi computerizzati, ma non è più sostenibile da un punto di vista energetico e ambientale. Per andare avanti dobbiamo ripensare tutto in modo radicale – non possiamo aspettarci che il futuro sarà come il passato: dobbiamo ripensare i nostri sistemi di produzione materiale in un modo che integra il riciclo e il recupero come un elemento centrale, dobbiamo ripensare i nostri sistemi di trasporto, di produzione energetica, di produzione e consumo agroalimentare etc. E’ improbabile che le nuove idee che potranno guidarci in questa impresa vengano dall’alto, dai politici, dagli intellettuali, dai partiti, dalla chiesa… L’innovazione sociale ci mostra un’altra strada basata su una moltitudine di iniziative dal basso, di esperimenti quotidiani.

Questo libro non è un libro ideologico, non è un manifesto. Compilato dal think tank del governo inglese NESTA (National Endowment for Science Thecnology and the Arts), un ente governativo che per molto tempo ha avuto come compito stimolare la creatività dell’economia inglese. Si propone di offrire piuttosto una sorta di catalogo di strumenti e pratiche che possono essere utilizzati. Inoltre, di ideologie c’è poco bisogno, sappiamo già cos’è che non va e cos’è che vogliamo, è quindi di strumenti che abbiamo bisogno.

Published by
Valerio Roberto Cavallucci