Responsabilità sociale

Usura, una piaga antica (prima parte)

Abbiamo parlato di usura qualche giorno addietro, commentando i dati forniti dal Rapporto Eurispes 2015: 37,25 miliardi di euro nel 2015 il capitale prestato ad usura a famiglie e imprese, almeno 44,7 miliardi di capitale restituito come interesse per un giro d’affari complessivo che sfiora gli 82 miliardi di euro, 3 milioni di famiglie interessate, 750.000 imprese agricole e 1 milione di aziende impegnate nel commercio e nei servizi (leggi l’articolo).

Presentando il Rapporto Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, ha sostenuto che le organizzazioni criminali utilizzano l’usura da un lato per riciclare denaro sporco e così ottenere enormi guadagni, dall’altro per acquisire imprese e attività travolte dai debiti, divenendo dapprima soci e in seguito veri e propri proprietari. “Tutto questo con rischi più contenuti rispetto a quelli connessi ad altre attività illecite come ad esempio il traffico di stupefacenti”.

Ma soprattutto “oggi sappiamo che la figura dell’usuraio non è rintracciabile solo tra criminali e mafiosi, ma è presente anche tra gli “insospettabili”: negozianti, commercialisti, avvocati, dipendenti pubblici, che hanno sfruttato il lungo periodo di crisi economica e l’indebitamento di famiglie, commercianti ed imprenditori per arricchirsi, forti delle crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. Ed è nata una nuova figura: quella dell’usuraio della stanza accanto”.

I dati sono davvero impressionanti e il Rapporto merita di essere consultato nella sua interezza (leggi il rapporto).

Tuttavia vorremmo qui soffermarci sull’aspetto culturale del problema utilizzando a tal fine la lucida introduzione al rapporto firmata, per l’appunto, dal Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara. Per facilitare la lettura proponiamo di articolare l’approfondimento in due parti: la prima dedicata ad un excursus storico sull’usura, dalle origini all’odierna normativa; la seconda (venerdì prossimo) all’esame delle caratteristiche attuali del fenomeno.   

 

Usura: una piaga antica

La pratica di prestare denaro stabilendo un interesse ha origini antichissime, come testimoniano le condanne all’usura rintracciate già a partire dal 2.000 a.C. in alcuni testi indiani. Il termine ha origine latina derivando da usus, l’utile che spetta al creditore in aggiunta a quanto prestato (non necessariamente denaro ma anche derrate alimentari). Il concetto stesso di usura ha, d’altra parte, conosciuto un’evoluzione nel corso della storia, come conseguenza della struttura economica della società e della cultura di riferimento.

L’usura, molto diffusa nella Grecia antica, veniva stigmatizzata da Aristotele (“Il denaro non può generare denaro”) e Platone.

Numerosi interventi normativi già durante l’impero romano avevano tentato di arginare il fenomeno. Si stabilì che gli interessi sul denaro prestato non dovevano superare il doppio del capitale. Gli imperatori Costantino e Giustiniano presero provvedimenti a tutela dei mutuatari deboli regolamentando l’entità degli interessi a seconda dei casi specifici, mentre Diocleziano introdusse una sanzione penale in aggiunta alla pena pecuniaria per gli usurai.

Dopo la caduta dell’Impero romano e per tutto il Medioevo fu soprattutto la morale cristiana a regolamentare la condotta.

Nella tradizione cristiana, prestito ad interesse e usura equivalgono nella sostanza e sono considerati inaccettabili: l’usura è mirare a ricevere più di quel che si è dato in prestito, il che è moralmente deprecabile in quanto il denaro è considerato sterile (concetto di derivazione aristotelica). Nel Vangelo (Luca 6, 34-35) si dice chiaramente che quando si presta non si deve chiedere nulla in contraccambio.

Poiché invece la religione ebraica considerava lecita l’usura, ma unicamente nei confronti di stranieri, soltanto gli ebrei erano autorizzati a gestire il mercato del credito.

Nel XV secolo i Francescani fondarono i Monti di Pietà o Banchi dei Pegni, istituzioni finanziarie senza scopo di lucro nate per erogare piccoli prestiti in cambio di un pegno, proprio con l’obiettivo di contrastare i danni generati dalla diffusione dell’usura e sottrarre il monopolio agli ebrei.

Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, fu il primo a considerare l’usura anche partendo dalla distinzione fra casi diversi di prestito ad interesse, non tutti ugualmente condannabili. Sarebbe disonesto, ad esempio, pretendere un interesse per il consumo di una bevanda o un cibo, ma non per l’uso di una casa. «L’interesse per il denaro prestato o usura è per se stesso un’ingiustizia: poiché si vende una cosa inesistente. Infatti, per le cose il cui uso coincide col loro totale consumo […], non si deve computare l’uso come distinto dalle cose stesse. Per queste cose il prestito equivale ad un passaggio di proprietà. Quindi se si volesse vendere il vino separatamente dal suo uso, si venderebbe due volte la stessa cosa o ciò che non esiste». Si introducono sottili distinzioni per separare i contratti leciti da quelli illeciti, ammettendo una sorta di “compensazioni” legate al prestito.

A partire da questo momento si tende a concentrare la condanna sulle condotte disoneste e su chi mira ad approfittare della posizione di debolezza del prossimo.

Il problema era cresciuto di gravità proprio nel Basso Medioevo, con la forte ripresa dei commerci, finendo per generare un mercato clandestino. Poiché imprenditori e mercanti avevano bisogno dei prestiti per far prosperare le loro attività, si affermò la distinzione tra prestiti alla produzione e prestiti al consumo. Questi ultimi davano vita ad un sistema di abusi e sfruttamento illegale, mentre dai prestiti alla produzione prese vita il sistema creditizio legale con la presenza di grandi banchieri.

Un ulteriore significativo passo in questa direzione fu favorito nel XVI secolo da Calvino, che sottolineò come fosse deprecabile non il prestito di denaro a fronte di un interesse, ma solo l’entità esagerata dell’interesse. L’uso del denaro poteva essere in qualche modo considerato come oggetto di vendita, così come l’affitto di un terreno, ma solo per i crediti di natura commerciale, non per quelli al consumo che speculavano sulla debolezza del debitore.

Si deve invece alla Costituente francese la prima distinzione ufficiale tra usura e interesse, regolato normativamente.

Nel mondo moderno, con il consolidamento dell’attuale sistema bancario e creditizio, il denaro viene inteso come capitale, destinato a generare altra ricchezza, da volgere a nuova produzione.

Negli ultimi due secoli si è quindi consolidato il concetto di usura come prestito con interessi elevati basato sullo sfruttamento di una posizione di debolezza economica; una attività illecita molto spesso alimentata da altre attività illegali.

Per quanto concerne specificamente il nostro Paese, negli Stati Sabaudi prima della Rivoluzione francese vanno ricordate le c.d. “Regie Costituzioni” del 1770 di Carlo Emanuele III, dove era stabilito che: «Non potrà veruna persona di qualsivoglia stato, grado e condizione esercitare in qualunque forma pubblica, o occulta, direttamente o indirettamente, per mezzo di contratti tanto espressi, che simulati, o in qualsivoglia altro modo, alcuna sorta di usure sotto pena della confiscazione dei beni, la quale avrà anche luogo ogni qual volta si scopra, e consti dopo la morte di qualche persona, che la medesima sia stata solita ad esercitare usure come sopra, rifatti però sempre i danni di quelli che ne avranno patito».

Nell’Italia post unitaria non erano previsti limiti legali ai tassi di interesse. Ed è anche per questo che l’usura non è punita nel codice Zanardelli del 1889.

Essa invece è punita nel codice Rocco del 1930 all’articolo 644 del Cod. penale, profondamente modificato con apposita legge del 1996. Oggi, per la condanna (reclusione da due a dieci anni e multa) si richiede soltanto la prova che l’imputato si sia fatto «dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari». Pertanto, non occorre più (com’era stabilito nel testo originario) fornire la prova – che di solito risultava praticamente impossibile – dello stato soggettivo di bisogno dell’usurato e dell’approfittamento di tale stato da parte del “cravattaro”. Con la nuova normativa sono anche previste la confisca in danno del reo e varie misure in favore delle vittime (a partire da un fondo di solidarietà).  Prosegue venerdì prossimo

Gian Maria Fara, presidente Eurispes

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Valerio Roberto Cavallucci