Nei giorni scorsi abbiamo dato notizia della pubblicazione del Libro Verde “Lavoro e welfare della persona” realizzato da Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi per promuovere studi e ricerche sul mondo del lavoro.
Come è noto i libri verdi, nel linguaggio della Commissione Europea, sono documenti finalizzati a stimolare la riflessione su un tema particolare e invitano le parti interessate (enti e individui) a partecipare a un processo di consultazione e dibattito sulla base delle proposte presentate.
In questo caso Giuliano Cazzola, Emmanuele Massagli, Silvia Spattini e Michele Tiraboschi hanno inteso chiamare la politica a liberarsi da risposte di routine o, nel migliore dei casi, timide e poco incisive, cercando di recuperare una visione d’insieme e una “progettualità di sistema”. Per questo il Libro Verde vuole aprire un dibattito pubblico, assumendo a riferimento un’analisi attenta delle trasformazioni in atto, proponendo un originale punto di vista, introducendo la discussione attraverso 25 interrogativi che spaziano dal rapporto tra i giovani e il lavoro al welfare aziendale, dalla conciliazione al lavoro sostenibile, dal reddito minimo garantito alla sanità, dal sistema previdenziale alle relazioni industriali.
Abbiamo scelto di contribuire a questo percorso riproponendo, in prima istanza, le pagine dedicate dagli Autori ad una nuova interpretazione del Welfare basata sulla “centralità della persona del lavoratore”, un Welfare in grado di prendere le mosse non “da modelli imposti dall’alto ma dalla libera iniziativa di uomini e donne inseriti nel proprio contesto sociale”.
VISIONE
La crisi economica che ha colpito il mondo intero a partire dall’estate del 2007 sembra essere uscita dal suo picco più alto. Lascia dietro di sé però una scia di indebolimento del tessuto economico e sociale, con 9 punti di PIL e centinaia di migliaia di posti di lavoro persi.
Lo scenario macro-economico è da leggersi in parallelo con l’imponente serie di innovazioni tecnologiche che stanno modificando i lineamenti del lavoro così come l’abbiamo sempre pensato, descritto e regolato nel Novecento industriale. Complice una accelerazione portata dalla crisi economica stessa, che ha visto in alcuni casi l’inasprirsi di un processo di sostituzione di lavoro umano da parte delle macchine in un caso e l’allargarsi del settore dei servizi in un altro, il lavoro non è più lo stesso che ci ricordavamo prima dell’estate del 2007.
Cambiamenti demografici che hanno condotto a una società sempre più vecchia e non in grado di rinnovarsi, squilibri ambientali che incidono sulla vita di tutti i giorni e impongono cambiamenti profondi nei sistemi di produzione verso i cosiddetti green jobs e la green economy, nuove tecnologie che da un lato sostituiscono il lavoro dell’uomo a vantaggio di macchine più efficienti e instancabili, dall’altro creano nuove opportunità in settori emergenti, sono questi i fattori chiave dello scenario in cui ci troviamo a vivere.
Tutto ciò si innesta in una situazione che alimenta un circolo vizioso di politiche attuate sempre in deficit. In questa situazione l’unica possibilità per poter ampliare i beneficiari del sistema, oltre a riformarne in chiave sussidiaria la governance, è ridare centralità al lavoro in termini di occupabilità, produttività e inclusione. Per far questo è più che mai necessario leggere i cambiamenti del mercato e adattare regole e modelli a questi, più che alle logiche dell’impresa e dei modelli organizzativi del lavoro.
I mutamenti non devono per forza condurre a prospettive negative, né a politiche di contenimento del cambiamento in atto o tentativi di regolazione restrittiva. I nuovi tempi di lavoro più flessibili, i luoghi di lavoro sempre meno fissi e l’ormai quasi totale possesso dei mezzi di produzione da parte di molte categorie di lavoratori possono essere una opportunità per la società italiana.
L’inasprirsi di contrapposizioni sociali, tra giovani e anziani, tra occupati e disoccupati, tra lavoratori stabili e lavoratori precari è comprensibile all’interno di una logica di relazioni di lavoro che oggi poco risponde alla fisionomia del nostro mercato del lavoro. Le grandi categorie si stanno sempre più liquefacendo e con loro la capacità della società e delle istituzioni che la identificano di rappresentarle. La crisi delle parti sociali e dei corpi intermedi, che colpisce indistintamente sindacati, associazioni datoriali e partiti politici, è conseguente a questa incapacità di intercettare bisogni nuovi, mai analizzati o affrontati nel passato.
Emerge in questo scenario la possibilità di una nuova centralità della persona del lavoratore, che si identifica sempre meno con una specifica classe sociale e con un posto di lavoro che lo caratterizza a vita all’interno del suo vissuto socio-economico. La durata sempre più breve delle esperienze lavorative e la tendenza a costruire percorsi professionali più che conservare posti di lavoro cambia la struttura del mercato del lavoro imprimendole una dinamicità che non è più data da eventi imprevisti e inattesi ma da una volontà di cambiamento e di crescita di competenze che nasce direttamente dal lavoratore.
Una società che voglia rispondere a queste esigenze di crescita e di libertà della persona non può che garantire strumenti affinché queste possano svilupparsi secondo le traiettorie che i soggetti individueranno. Questo non significa promuovere un disinteresse completo per le conseguenze sociali delle scelte individuali ma costruire un modello all’interno del quale possano convivere i desideri e le aspirazioni delle persone e il bene comune.
Un welfare della persona è quindi un welfare della società che si muove non a partire da modelli imposti dall’alto ma dalla libera iniziativa di uomini e donne inseriti nel proprio contesto sociale. Diminuiscono così le dimensioni dei vincoli e si adattano alla misura delle relazioni personali, che hanno confini ridotti e non corrispondenti a quelli delle istituzioni pubbliche. Il modello della città è sempre più l’estensione oltre le cui mura un welfare della persona rischia di diventare inutilmente invasivo e di dettare regole ai singoli più che costruirle in funzione di una logica condivisa e di sistema.
Centrale in questo quadro è la costruzione di moderni mercati transizionali del lavoro, basato sul governo delle molteplici transizioni lavorative e professionali sperimentate dalle persone e sulla costruzione delle condizioni necessarie affinché esse assumano segno positivo, a partire dalla dotazione di competenze e da congrue occasioni di lavoro e di reddito.
L’investimento nelle competenze delle persone, nell’ottica dei mercati transizionali del lavoro, non è però finalizzato solo a favorire un efficace matching con le esigenze dei sistemi produttivi locali, ma a far sì che le persone siano in grado di compiere scelte consapevoli e libere riguardo al proprio percorso professionale e di vita.
Il passaggio da politiche passive per il lavoro, oggi oltre che teoricamente anche economicamente insostenibili, a politiche attive, passa dal riconoscimento che il mercato del lavoro si costruisce intorno alla persona, sia come soggetto che lavora sia come portatore dei bisogni che la produzione vuole soddisfare.
In tale ottica, le politiche attive del lavoro devono contribuire, da un lato, a valorizzare le competenze già esistenti, riconoscendo il valore delle esperienze maturate in diversi contesti formali, non formali e informali e creando ponti tra ambiti di attività spesso non collegati (vita familiare, volontariato, formazione, lavoro, ecc.); dall’altro, devono mirare alla formazione, all’ aggiornamento e alla riqualificazione di competenze, che rispondano alle esigenze delle persone e dei sistemi produttivi. Tale impostazione – che supera tanto l’idea assistenzialistica di un supporto meramente economico fruito passivamente, quanto quella utilitaristica dell’adattamento incondizionato (e altrettanto passivo) delle persone alle richieste del mercato – può essere raggiunta solo attraverso la collaborazione tra imprese, istituzioni, attori sociali e del mondo formativo, all’interno di network animati da un dialogo costante, a vantaggio di tutti gli attori coinvolti e dell’intera società.
In un contesto che ancora paga la crisi economica, con consumi stagnanti e inflazione ai minimi, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro deve procedere in parallelo all’incontro tra domanda e offerta di beni e servizi sempre più differenziati per rispondere a nuovi bisogni della persona e della società. Prova di ciò sono le numerose forme di lavoro parallelo, espressione della cosiddetta sharing economy come un tentativo di soluzione al problema dei prezzi di servizi e beni di consumo e alla difficoltà di acquisire la proprietà di beni, preferendone quindi il solo accesso consentito a prezzi minori.
Una società attiva dunque, per riprendere espressioni ancora valide, spesso prima e senza che le istituzioni siano in grado di leggere e accompagnare tali mutamenti, con il rischio di generare mercati paralleli che portano a distruggere le vecchie logiche di concorrenza che legalmente restano ancora il paradigma normativo dominante. Una società che, in quanto esperienza relazionale tra persone, non può che prescindere dalle condizioni di sviluppo integrale della persona, prima tra tutte il lavoro.
Tutte queste sfide possono quindi essere lette, ciascuna nel suo ambito di competenza specifico, come tasselli del puzzle del nuovo welfare integrale della persona e affrontate a partire dalla sua visione.